lunedì 10 giugno 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 31


Per accedere al corso di tecnico di laboratorio all'Istituto d'Igiene bisogna fare anche un colloquio. La commissione era formata da diversi docenti e dal direttore dell'istituto. Dopo alcuni convenevoli. Il direttore mi chiede:
«Che cos'è il suono?»
«Un'interruzione del silenzio.»
Mi guardò meravigliato e sorpreso. Ma non si espresse. Unica domanda.
Ammesso.


Ci si sedeva in circolo. Non c'era un programma. Iniziava per prima chi sentiva l'urgenza di parlare. Gli altri seguivano il filo o raccontavano altro. Lui, l'analista, alle volte interveniva, altre si limitava a tirare le somme alla fine della seduta. L'assistente invece stava sempre muto e non interveniva mai. Alle volte prendeva appunti. La seduta avveniva in due round il primo di novanta minuti, e l'altro di trenta con una pausa anch'essa di trenta minuti. Noi lì, a cercare di sistemare ognuno il proprio puzzle. Passai cinque anni nel gruppo prima di lasciarlo. Non ho completato l'intero mosaico, ma riesco ad avere lo stesso una visione d'insieme.
Può bastare.


Le catenelle colorate. Quando frequentavo la scuola elementare. Nel periodo di magra delle figurine di calcio, c'era la raccolta delle catenelle. Si compravano i singoli anelli della catena e poi si giocava con gli altri ragazzi. A tre o a cinque anelli. Si segnava la base dove dovevano arrivare, e poi si lanciava tentando di centrarla. Davanti alla scuola, la mattina, sostava là una bancarella. Vendeva caramelle, mele zuccherate, gomma da masticare e cocco a pezzi. Con trecento catenelle potevi avere un cocco intero. Mai nessuno, tra quelli che conoscevo, ebbe mai un cocco in cambio delle catenelle.


Intorno ai dieci anni andavo a lavorare da Mimmo il barbiere. Io ero quello che scopava, toglieva la schedina del totocalcio che veniva usata per raccogliere la saponata dal viso dei clienti, preparava i panni caldi da applicare dopo il taglio della barba. Allora, per fare lo shampoo si riscaldava l'acqua in una pentola e poi la si stemperava. Io mi occupavo anche di questo. Fra i tanti clienti ce n'era uno che quando lo vedevo arrivare sarei scappato volentieri. In modo scherzoso, mi chiedeva:
«Me lo fai vedere. Voglio vedere se lo hai più lungo di quello di mio nipote.»
E cercava di tastarmi mentre io facevo di tutto per allontanarmi, arrossendo per la vergogna e sudando per il disagio. Con mio zio che lavorava lì e non interveniva. Per tutti era un modo di scherzare. Per me, ogni volta, una sofferenza. Lui non era un pedofilo. Gli piacevano i ragazzi questo sì. Io lo scoprii molti anni più tardi.
Stronzo.


La noce moscata...
il sagrestano la portava nella tasca sinistra dei pantaloni. Spesso la tirava fuori e la strofinava fra le mani. Poi, avvicinandole a coppa al naso, ne aspirava l'odore. La tasca destra era quella bucata. E capitava che invitasse qualche ragazzo a infilarvi la mano. No, non portava le mutande il sagrestano. E odorava ovunque di noce moscata.

Io lo sapevo. 

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