venerdì 26 dicembre 2008

Fiiili...





“Fiiili.”
La voce risuona fra i vicoli della Vucciria. Filippo non risponde. Si nasconde dietro un angolo.
“Fiiili.”
Lui, sedicenne agli arresti domiciliari. Per uno dei tanti scippi che avvengono giornalmente a Palermo.
Filippo vive con il fratello, è la moglie di questo che lo chiama affacciata al balcone.
Tante cose affascinano Filippo. Fra tutto in particolare le donne.
Guarda. Segue con lo sguardo. Spia... si inumidisce il labbro. Sogna.
Qualche volta seduto su un motorino posteggiato nel vicolo si masturba guardando una persiana semi socchiusa. Oppure sogna.
Filippo sogna...
Di poterlo rifare. Uno scippo sostanzioso. Una bella turista con un borsello pieno di soldi. Tanti soldi.
Lui non vuole essere come il padre che chiedeva l'elemosina davanti la banca. No! Un bel lavoro pulito pulito. Poca fatica tanto guadagno. Un semplice scippo di borsetta.
Filippo sogna...
Un motorino come quello che utilizzava la madre per accompagnare il marito a mendicare. Ti immaggini con un motorino come riesce meglio lo scippo. No adesso, che deve correre a perdifiato lungo il labirinto dei vicoli della Vucciria. Fino a sentirsi scoppiare il cuore. Con un motorino... sarebbe tutta un'altra storia. Come una scopata, al posto di una sega.
Filippo sogna...
Un'altro telefonino. E libero di scendere tra i vicoli senza doversi nascondere al passaggio di una macchina della polizia. Per sfoggiare il cellulare nuovo, facendo finte telefonate. Parlando a improbabili ragazze, con nomi come Jessica o Pamela.
Filippo sogna...
Sotto queste feste dei botti più potenti. Quelli che fanno tremare i vetri delle finestre. Forte e potente come un tuono di un temporale estivo. E far saltare tutto per aria, e poi ridere fino alle lacrime.
“Fiiilii...”
Filippo torna alla realta...
Si accende una sigaretta con aria spavalda si avvia verso casa.
“Arrivo, arrivo...”
E và verso la sua prigione.

lunedì 1 dicembre 2008

Le foto di Massimo




Ora ti faccio la foto, Perì. Mettiti qui, bene in luce. Che sei bello, Perì! Ti ho curato bene e adesso ti faccio la tua foto. La metterò accanto alle altre. Appesa alla parete con un chiodino. A decine ne ho di foto. Tutte allineate sul muro della mia stanza. Sai ci scrivo in tutte il nome. Perchè, ti chiedi? Perchè anche io ho le mie debolezze. Mi piace avere un ricordo. Io, tutti vi ho amato. E dopo, ogni volta, mi giro verso la parete e piango. Sì, non so trattenermi. Le lacrime lavano il mio dolore. Ma dimmi tu, che faccio? Questo mi hanno insegnato. Di questo campavamo, ed era giusto farlo. Questo fin da piccolo mi hanno fatto vedere. No, non le foto. Ma quello che devo fare dopo. Dopo aver fatto la foto. Perchè questo è il mio mestiere. Vivo di voi, di te e degli altri. Solo che non voglio dimenticarvi e quindi vi fotografo. Dai, mettiti da questa parte che ti si vede meglio. Sei veramente bello!
Due, te ne faccio, due. Per essere più sicuro, due scatti ti faccio. Ecco, fatti!
Adesso entriamo. Mettiamoci vicino quello scarico che c'è per terra. Non ti faccio male. Un attimo, e non senti più nulla. La lama è affilata e cederai presto. Poi non sarai più Perì, ma carne di agnello.
Ora sei carne, io non ho più Perì, e piango la sua assenza.

lunedì 24 novembre 2008

Dai, che sei solo!




“E dai, che sei solo!”
Lo ripete a voce alta. Più volte durante la mattinata. Lui è Michele. Ha riaperto la sua vecchia friggitoria nella piazzetta. “E dai, che sei solo!” è un auto incitamento e forse anche una bestemmia. “Dai, che siamo soli!” è l'unica variante. Detto di domenica mattina, rivolgendosi al barbiere. Perchè unici in tutto il mercato ad essere aperti.
”Dai, che siamo soli!”
Michele non è solo. Il fratello e la sorella lavorano con lui.
A Michele piace la musica anni sessanta. Non la fa mancare mai. Di buon'ora appena apre accende il suo piccolo stereo e via con Camaleonti, Little Tony, Michele (Michele il cantante), Rita Pavone, ecc... Lui stonatamente alle volte afferra un ritornello e lo uccide.
Michele è il pioniere del vecchio far-west. Lui porta un pò di regole dove prima vi era il caos. Assediato da una tribù di biondi indiani cattivi. Una tribù composta quasi esclusivamente da donne e bambini. Il trentottesimo caval leggeri, in una retata, ha portato dentro il carcere del fortino gli uomini. Niente di grave, piccole normali cose.
“Furtarelli piccolo spaccio... cose da nulla. Perchè vorresti dire che dovrei vergognarmi che mio marito è in carcere? Ho il marito in carcere! E allora? “
“E dai, che sei solo!”
Michele non protesta se loro si impossessano di un suo tavolino. I bambini, della tribù di biondi indiani cattivi, spargono immondizzia nella piazza. Così, per giocare. O si abbassano i pantaloni e pisciano in un angolo della piazza. Mentre ci sono clienti di Michele seduti a mangiare. E lui pazientemente cerca di allontanare quei diavoli urlanti. Sua sorella cerca di ripulire.
“E dai, che sei solo!”
Michele non solo fa le panelle, ma spesso fa pure le “rascature”. Nessun ormai le fa più. Vengono fatte con la farina di ceci cotta, rimasta attaccata alla pentola. Dando una forma triangolare. Vengono poi fritti come le panelle.
“E dai, che sei solo!”
La tribù di biondi indiani cattivi usa la guerriglia. Fa un blitz e si ritirano. Mandano in avanscoperta i bambini. Invadono la piazza. Discutono anche:
“Quannu muriu me patri mi misi u luttu, ma dopo na simana minni ivu a mari.”
“Certo uno ca è vivo ne che pò fari a vita du muartu”
“Veru Francè, però u viri. Dopo na simana ca muriu me padri minni ivu a mari. Ma si mi murissi me figghi mancu dopo un annu mi vinissi u disiu du mari...”
Nel frattempo uno dei figli, Giovanni il più piccolo, disturba chiunque passi. Punta la sua pistola, carica di pallini di plastica arancioni e spara. Allo sguardo seccato dell'ennesimo passante colpito da uno di quei pallini arancioni la madre lo richiama dicendogli:
“A fiiinisci... chi t'ammazzassiru!!!”
“E dai, che sei solo!”
Ormai nella zona Michele è associato a quella frase. Spesso al suo passare qualcuno gliela urla dietro.
“Dai, che sei solo!”

lunedì 17 novembre 2008

Boris



La mia passione verso le cotolette, si rafforzò quando conobbi Boris.
Boris, incontrato dopo il mio ritorno da Amsterdam. Di notte, davanti la stazione centrale. Lui su una Volkswagen verde. Mi avvicinai e gli dissi:
“ Ti andrebbe di fare l'amore con me? ”
Lui sorrise e mi fece cenno di salire in macchina. Inizio da lì una storia durata quasi venti anni.
Boris era bravissimo in cucina. Suo piatto forte era u bruciuluni. Il cosiddetto falsomagro. Una vera bomba di piacere. Metteva pan grattato, listarelle di lardo e formaggio, uova sode, mortadella, pinoli e uva passa. Il tutto avvolto da una fetta enorme di carne. Prima veniva rosolato e poi cotto nella salsa.
Ma io impazzivo per come cucinava le cotolette. Che per anni ho cercato di imitarle senza mai riuscirci. Eppure lo osservavo sempre quando cucinava. Ma il segreto non sono riuscito a scovarlo.
Boris amava i formaggi. Non mancavano mai nel suo frigo. Dove teneva un contenitore con formaggi di due o tre tipi diversi. Non gradiva molto il burro. Tranne nei dolci. Come suo padre, Boris, impazziva per i dolci. Mi raccontava che suo padre, che viveva a Camporeale, veniva ogni tanto a Palermo per sbrigare degli affari. Non solo economici ma anche di cuore. Quando era a Palermo vi passava anche la notte e dormiva in albergo. La sera, prima di ritirarsi, comprava una cassata siciliana da un chilo. Arrivato nella sua stanza scartava la cassata e ne mangiava un pezzo. Poi poggiava il vassoio sul comodino. Durante la notte ogni tanto si svegliava e ne mangiava un pò. Al mattino il vassoio era vuoto e la cassata finita. Compresa tutta la frutta candita.
Il padre di Boris aveva due grandi amori: le donne e la cassata siciliana. Credo sarebbe impazzito di piacere ad avere una donna a letto e una cassata sul comodino.
Boris dal padre aveva ereditato solo la passione per la cassata.

“Maestro non trovo come chiudere... avevo una mezza idea di riprendere il discorso sull'oloturia. Ho scoperto che in alcuni paesi viene utilizzata anche in cucina. Appena pescata viene pulita ed essiccata al sole. Poi viene fatta rinvenire, e a pezzi viene cucinata insieme a delle verdure. Ma a parte queste generiche indicazioni, non ho trovato una specifica ricetta a base di oloturia.”
“E ti servirebbe?”
“ Sì, perchè sarebbe la chiusura di un cerchio.Altrimenti non saprei come chiudere...”
“Ma è semplicissimo Totò”
“Sarebbe a dire? Cosa scrivo per chiudere?”
“Fine.”

lunedì 10 novembre 2008

Da solo




Intorno ai 12-13 anni passavo interi pomeriggi in casa. Non abitavamo più con la nonna. Mio padre, grazie all'eredità lasciatagli da sua madre, comprò una casa a Romagnolo. Lì, per la prima volta, c'erano dei momenti in cui mi ritrovavo a casa da solo. Quando i miei uscivano io preferivo restare a casa. E loro uscivano regolarmente tutti i pomeriggi. O andavano a fare la spesa o a trovare nonna Barbara. In ogni caso mancavano due tre ore. Appena uscivano assaporavo un senso di libertà quasi assoluta. Solo in casa, e poter fare qualunque cosa. Per lo più, quel senso di libertà, si concretizzava nel prendere possesso della cucina e giocare a cucinare. Imbastivo minestrine con quello che trovavo a disposizione. O qualche crema dolce. Cucinavo e mangiavo ciò che preparavo. Quando finivo ripulivo tutto come se avessi commesso chissà quale delitto. Mancava poco che eliminassi anche le impronte digitali lasciate in giro. Aprivo anche balconi e finestre per fare aerare l'ambiente.
Non doveva restare nessuna traccia di ciò che avevo fatto. Non sempre mi riusciva. Una volta mi capitò di non calcolare bene i tempi. Rientrarono trovandomi con un piatto di polpette fatte con patate grattuggiate e uovo. Mi imbarazzava che loro scoprissero questo mio segreto. Anche se mia madre quella volta mi disse:
“Perchè non ne hai fatto di più?”
Io arrossii e mi sentii colpevole. Come sempre.

“Sì, forse qualcosa di buono c'era...Totò”
“Maestro, dice vero? Perchè mi sentirei incoraggiato.”
“Nel senso di colpa.”
“Ho capito. Come al solito Lei sostiene che l'unica cosa buona che ho scritto, a parte una poesia, è quello che devo ancora scrivere.”
“...”
“Mi vuole dire che devo rimpolpettare tutto e riscrivere quello che ho già scritto?”
“Totò lo sai, perchè lo chiedi?”

lunedì 3 novembre 2008

Prima comunione




Pantaloni blu e giacca grigia, con uno stemma sul taschino. Il primo dei miei pochissimi abiti da cerimonia. Indossato per andare verso la santità. Per dividersi le spese i miei fecero coincidere la mia prima comunione con quella di mia cugina Enza. Quasi un matrimonio nelle nostre fantasie di bambini. Ed io che recitavo la parte dell'ometto ringalluzzito da quel vestito, che i miei avevano comparato a rate da Bellanca & Amalfi.
Io non potevo non essere che il prescelto. Perchè quel dio aveva posato la mano su di me. Ed io, che in casa ero soprannominato la bocca della verità, ero sicuramente un santo.
I sacchetti per i confetti, non erano di tulle, ma una specie di valiggetta di plastica trasparente. Che come tradizione confezionammo in famiglia. Cinque confetti e il bigliettino con il mio nome e la data della cerimonia. Tutta la famiglia attorno ad un tavolo a prepararli.
Mentre io invece ero pronto, già mi vedevo predicare fra gli infedeli. Perchè a me era stato passato il fuoco. Io ero il santo.
I regali ricevuti dai parenti erano tutti esposti sulla credenza del soggiorno. Un portafotografia d'argento, una penna stilografica e un portamine, un cofanetto con un coltello un cucchiaio e una forchetta con il manico d'argento. Insieme vi erano anche altre cose che nemmeno hanno lasciato memoria.
Ero sicuro di essere avviato verso la strada giusta. Avevo aspettative grandissime da quella iniziazione. Mi si riconosceva che non ero più solo un bambino. Ed era già una grossa conquista. Ero sul cammino corretto.
Il ricevimento con oltre cento persone. Ma si erano limitati ai parenti stretti della mia famiglia e quelli della famiglia di Enza. Un pranzo infinito interrotto ogni tanto da qualche ballo. Duranti i quali le donne si divertivano a far gonfiare le loro ampie e lunghe gonne. E gli uomini ballavano fra di loro.
Per un giorno, intorno agli otto anni, mi sono sentito inserito nella società. E santo, naturalmente. Avevo lavato via la storia della colonia estiva, il sagrestano e qualche marachella. Un ometto fatto e ripulito. Pronto a ricominciare.
Ma sicuramente non a diventare santo.

giovedì 30 ottobre 2008

Il maialino




Il maialino veniva tenuto nel terrazzo. Noi lo andavamo a trovare spesso. Facevamo a gara a chi dovesse portargli da mangiare. Interi pomeriggi passati sul terrazzo. Per me un giocattolo vivente, altro che bambolotti da vestire. Non andavo all'idea del perchè dell'arrivo di quell'animale in casa. Fino a quella sera, quando in casa ci furono dei preparativi strani. Grossi coltelli da macellaio che passavano tra le mani degli adulti. Poi quelle urla strazzianti, quasi da neonato. Una bacinella colma di sangue. Il divieto a noi bambini di entrare nella stanza dove lo zio Ciccio, quello che gestiva un distributore di benzina, aveva centrato perfettamente il cuore del maialino. Lui per questo era stato chiamato. Perchè anche se benzinaio aveva esperienza nel macellare animali. Il giorno successivo era giorno di festa e alla nostra famiglia si erano uniti altri parenti. In cucina preparativi alla grande con mia madre e nonna Barbara ai fornelli. Mentre ero in cucina a curiosare, mio fratello Pino fece un grughitto indicando con uno sguardo i fornelli. Solo allora mi resi conto che il condimento della pasta e il secondo di quel pranzo erano frutto della morte del maialino. A tavola mi rifiutai di mangiare. Mia madre a forza mi mise in bocca un pezzo di carne. Evitando di vomitare sul tavolo mi affaciai al balcone. E li sputai la carne. E poi sputai ancora e ancora per eliminare i residui di quel sapore. Poi piansi, accovacciato in un angolo del balcone.

“ Sei una neglia, Totò.“
Il Maestro anche se lontano si fa sentire lo stesso. A ttia taliu è il suo motto. Ti tengo d'occhio non credo traduca perfettamente. C'è un sentimento di controllo quasi oppressivo.
Ma anche quella affettuosità che il Maestro non dichiarerebbe mai apertamente.
“ Ma perchè? “
“ Totò non sei pronto per scrivere di cucina...”
“ Maestro, le faccio notare che parlo più che altro di cibo...”
“ ... ”
“ Sto cercando la memoria attraverso vari cibi...Ricordi accoppiati a cibi per digerire meglio il passato. Memoria assorbita e fatta sangue.”
“ Minchiate”
“Lei crede che voglia perdere tempo.”
“Totò. Vntimila battuti e i vogghiu truvare quannu tornu.”
“ Ventimila? ”
“ Sugnu buanu e ti ci considero puri i spazi.”
“ Ventimila? ”
“ Vabbene?”
“...”

lunedì 27 ottobre 2008

Risoluzione




Il fagotto non può contenere tutto
così vado solo fuori strada
Affondo le mani nell'aria
a raccogliere valore
e ti rivolgi a me per protezione
Dov'è la carenza?
Pensaci
Ci sono ancora carezze in giro?
Avevo aspetti che nascondevo
per protezione
per riflesso
per convenienza
Ora sono qui
e qualcuno ancora mi evita
Reciti piegato in due
non ammetti che gli dei siano sordi
tutti quanti sordi
Ho favole coperte di sangue
e le proteggo dolcemente
Ho sogni strani
da non raccontare
li sfratto dalla testa
per scordarli
per protezione
per riflesso
per convenienza
ora vado avanti
con intenzione
con una direzione ben precisa
giù per di là
giù per di là

lunedì 29 settembre 2008

Fine anni 50'



Rosa e Salvatore. Abitavano al piano sotto quello della nostra famiglia. Il sabato sera, dopo cena, salivano da noi per vedere la televisione. Nel palazzo, solo noi e la famiglia che abitava al primo piano avevamo un televisore in casa.
Rosa e Salvatore erano sposati e non avevano figli. Per noi bambini, i grandi che non erano parenti acquisivano il titolo di signore o signora. La signora Rosa: bruna, viso tondo, sempre sorridente. Il signor Salvatore: biondo, robusto e sempre pronto allo scherzo.
Lui impazziva per le tette di Abbe Lane e per le velatissime cosce delle gemelle Kessler.
Io impazzivo per lui.
Fu un'illuminazione, quando capii cos'era quel malessere che provavo quando lo vedevo. Tutto uno sfarfallio nello stomaco, tremori alle ginocchia, e quello sguardo da pesce lesso che non riuscivo a togliermi. Mi ritornava sempre quella visione: lui nudo sotto la doccia. Anche mio fratello avevo visto nudo, ma non provavo le stesse emozioni. Il signor Salvatore era l'uomo nudo. Mio fratello era... svestito.
Il signor Salvatore lo vidi sotto la doccia. E naturalmente... presi una sbandata. Ma letteralmente. Come un mancamento, faticando a resistere per non tornare sui miei passi a rivedere. Un lampo accecante, e l'immaggine mi si fissò negli occhi.
Capì mai le attenzioni di quel bambino? Credo di sì, lui era sveglio. Un giorno gli senti sussurrare qualcosa a mio padre. Assenza di donne... troppo casalingo e “sistemato”. Indicandomi con i suoi occhi azzurri.
Sentii e... capii la voglia di sprofondare.

lunedì 22 settembre 2008

Fave II

Fave a cunigghiu: non so che centri il coniglio nel nome, essendo un piatto totalmente vegetariano. A base di fave secche, bietola e aglio. La nonna Barbara era maestra nel prepararle. Pizzicava le fave secche, togliendo quella specie di occhiatura nera e le metteva in acqua dove le lasciava riposare una notte. Il giorno dopo cambiava l'acqua alle fave, vi aggiungeva alloro, diversi spicchi di aglio con la camicia, e un pizzico di origano. Quando le fave erano cotte vi aggiungeva le bietole, facendoli cuocere insieme, fino alla cottura della verdura.
Ottima forchetta la nonna. Con solo due denti non rinunciva a nulla. Nemmeno alle castagne secche. Le scioglieva in bocca come fosssero caramelle. Cruzziteddi le chiamava. Non so se filogicamente sia corretto ma fin da piccolo per me era un vezzeggiativo di crozza, teschio. Alle volte rabbrividivo nel pensare a mia nonna sciogliersi in bocca piccoli teschi.
Mio padre le ripeteva come tormentone:
“A vucca è n'aneddu ca si mancia palazzi e casteddi ... e vossia è a bon puntu!”
Lei sventolava la mano destra davanti l'orecchio. A voler scacciar via lui e le sue insinuazioni.
Quando cucinava i fagioli secchi, la nonna, metteva nella stessa pentola una manciata di castagne secche. Che portavano alla pietanza una dolcezza particolare. I fagioli erano borlotti, e la pasta che veniva aggiunta spaghetti spezzettati. Mai pasta corta.
La zia Concetta, figlia di nonna Barbara, non mangiava fagioli. Allora mi chiedevo perchè rinunciasse a quel piatto delizioso. Forse perchè non digeriva quei legumi o forse non le piaceva il sapore. Poi capi che lo faceva per evitarne le conseguenze. Qualche incontrollabile scorreggia.
Alle fave a cunigghiu, fatte da sua madre, però non riusciva a resistere. Anche se lasciava nel piatto tutte le bucce delle fave.
Tre volte mi sono rotto la testa. La prima volta con una bacchettata datami dal maestro della scuola elementare. La seconda durante una “pitruliata”. Una battaglia a colpi di pietra fra due squadre di ragazzini. Non era un gioco, ma vere e proprie guerre per conquistare un campetto. O semplicemente per sentirsi più tochi rispetto a quelli che abitavano al di là del nostro isolato. Durante uno di questi scontri una pietra mi ruppe la testa. Diventando l'eroe del gruppo per qualche giorno. La terza volta a causa di un ago da cucire che non volevo restituire. Zia Concetta che rivoleva il suo ago mi ruppe la testa, tirandomi un bastone usato per lo straccio. Lei mi aveva avvertito. Con quel suo tono di voce sempre acutissimo.
“ Viri ca ti tiru u vastuni... viri ca tu tiru veru...”
E lo tirò. Colpendomi, non so quanto involontariamente.
Quell'ago doveva servirmi a finire un vestitino. Spesso cucivo abitini. Fatti con il tulle usato per confezionare i sacchettini per i confetti. Abitini da fare indossare al bambolotto di turno abbandonato da mia sorella. Io lo inciuciavo con il tulle e qualche pezza rubata a mia madre. Poi quando era pronto lo introducevo in società. Lo presentavo a mia sorella e ad Enza, la cuginetta che giocava solitamente con noi. Davamo un nome al pupo. Simulando un battesimo. Facevamo poi una piccola festa, con una bottiglia di aranciata. Quella fatta con le bustine e l'essenza. E i confetti ai quali avevo sottratto il tulle. Il bambolotto ritornava a nuova vita, e per qualche pomeriggio aveva tutte le nostre attenzioni. Smisimo con questo gioco quando in casa entrò un maialino. Un maialino vero . Grande quanto un cucciolo di cane.

lunedì 8 settembre 2008

Fave I


Cibo condizione culturale. Ma anche trasmissione di affetto materno. Tipico di mia madre ogni volta che tornavo a casa era di chiedermi:
“ Manciasti? ”
La sua preoccupazione principale era il nutrimento. Nient'altro.
Non importava quale fosse la mia risposta. Lei invariabilmente replicava con
“ 'nca mancia.”
“ Maaa, ho detto che ho mangiato!... “
“ ...e tu manciatillu senza pani. “

Certo la nostra generazione la fame vera l'ha conosciuta attraverso i ricordi soprattutto delle nonne. Mia nonna Barbara raccontava spesso del periodo durante la II guerra mondiale e della fame patita in quei giorni. Gli espedienti per trovare cibo. La borsa nera. Che non riuscivo a capire che fosse. Ci raccontava di quella volta che trovò una gallina. Comprata illegalmente. Tirandoci fuori la cena per tutta la famiglia. Concludeva sempre le sue storie raccontando delle abbuffate di faggiolina. Noi ragazzini l'ascoltavamo con gli occhi sbarrati. La nonna precisava ogni volta:
“ Non era vera faggiolina. Sarina, mia cugina, lavorava come cuoca presso u principe. Quello che stava dalle parti di via Alloro. U principe era principe ma ormai non è che navigasse più nell'oro. “
Sarina era una donna magrissima. Dall'aspetto fragile, ma in realtà instancabile. Nubile per scelta, non faceva solo la cuoca dal principe. Era la donna delle pulizie, ma anche la sarta, lei faceva la spesa e, sempre lei, cucinava.
In quella scelta di solitudine qualcuno insinuava che c'entrasse u principi.
La nonna Barbara continuava:
“ Quando cucinava le fave pu principi, raccoglieva tutti i baccelli vuoti e ce li portava. Noi li tagliavamo a striscette. Le facevamo bollire. Una volta cotte le buttavamo in padella dove era stato soffritto dell'aglio. Credetemi, faggiolina precisa era. Certo le bucce non devono essere vecchie vecchie. Bisognava usare le prime fave, che hanno la buccia tenera... “
Il primo campo coltivato a fave lo vidi molti anni dopo di notte. Perdendoci il portafoglio, scivolato via dalla tasca dei pantaloni abbassati. Durante una scaramuccia sessuale. Mentre il suo amico autista aspettava in macchina. Arrivati lì su una spider rossa. In tre. Lui subito mi precisa che, non avendo la patente, si fa accompagnare da un amico. Mi aveva abbordato dicendomi:
“ Sei qui in attesa che qualcuno ti rapisca? ”
“ Non sarebbe una cattiva idea... “
“ Allora sali. “
Io lo avevo notato su quella spider rossa. Ma vedendolo in compagnia di un'altra persona avevo perso le speranze.
Era stata la classica giornata di merda. Chiuso nella cucina dell'albergo Kinzica di Pisa, dove lavoravo. A cucinare, addossandomi il lavoro del collega assente.
Non avrei mai pensato si potesse concludere in un campo di fave.

domenica 10 agosto 2008

Polpette: parte II


Le ho rifatte le polpete. A casa. Giocando, come sempre, con il cibo. Chiamandole polpette etniche. Inventandomi una ricetta con carne tritata e burghul, con un cuore di soffritto di cipolla peperoncino chiodi di garofano e noce moscata.
Mi piace la noce moscata. Ha qualcosa di vagamente erotico. Per me é legata al ricordo di un sagrestano di una piccola chiesa di corso dei Mille. Lui non aveva nulla di esotico. Palermitano cinquantenne panciuto e calvo. Affabile, sorridente e gentile. Con una noce moscata sempre in tasca. Le sue braccia come una dolce piovra per me bambino. Con tutto lo spazio per allontanarmi e dire di no. Rimanevo seduto sulla sua coscia. Aspettando, rosso in volto, la fine della ricerca compiuta dalle sue mani fra le mie cosce. No, non ricordo il nome. Ma il volto e quegli suoi occhi cerulei sì. Ricordo anche il prete di quella chiesa. Un inutile e mellifluo personaggio con la testa perennemente china. Con quell'odore tipico da prete sempre addosso.
La noce moscata il sagrestano la portava nella tasca sinistra dei pantaloni. Spesso la tirava fuori dalla tasca. La strofinava fra le mani. Poi avvicinandole a coppa al naso aspirava l'odore. La tasca destra era quella bucata. E capitava che invitasse qualche ragazzo a infilarvi la mano. No, non portava le mutande il sagrestano. E sapeva ovunque di noce moscata. Io lo sapevo.
Una delle condizioni nell'uso di questo aroma è di non abusarne. Io non ho abusato nell'uso del sagrestano. Nè della noce moscata nelle mie polpette.
Venute buonissime, tanto che incontrando il Maestro, il giorno dopo, al bar gli accenno alle polpette etniche. Ma ...
- Ma che fai me le racconti? Scrivile Totò! Mandami una email con la ricetta. Trova un cazzo di mezz'ora e la scrivi.
- Sai erano buone, le ho accompagnate con l'hummus fatto pure da me.
- Quando elimini quella gatta da casa tua?
- La mia piccola gattina...
- Seee, io allergicu sugnu. Minchia, mi toglie il respiro e il piacere di assaggiare le polpette
- E tu Mastro non respirare...
- Babbia babbia... e mi raccumannu un scriviri nenti u se...ni viremu... ciao

domenica 3 agosto 2008

Polpette


“- …e io lo dico a papà
- Pino, non è successo nulla, giocavamo…
- Si nulla. Tutto mi hanno raccontato.
-Giocavamo. Eravamo rimasti soli nella camerata e…
-Seee fra masculi… a due a due sullo stesso letto…
-Si giocava…era tutta una finta…
- Va bene, era una finta. Oggi ci sono le polpette. Le tue le voglio io. O racconto tutto a papà.
-Ma le polpette sono le cose migliori che fanno qui.
-Lo so. E so pure quello che è successo questa notte. Quello, che tu chiama “una finta”. Lo posso raccontare allora?
- E va bene, ma almeno una me la lasci?
- No.
- ...
- ...e non finisce con quattro polpette.”


- Maestro, queste poche righe sono riuscito a tirare fuori. Io sono per i temini, due paginette scarne...
- No Totò, sei pigro. Hai paura del foglio bianco... come per le donne...
- Tu sei fissato. Bisognerebbe avere un progetto, un idea...no, no.
- Hai tutto quello che ti serve. Hai delle particolarità. Sei omosessuale, abiti nel centro storico, conosci diverse persone... Hai tutto
- Non saprei da dove iniziare, cosa raccontare soprattutto.
- Devi solo metterti davanti quella fottuttissima pagina bianca e iniziare. La verità è che sei pigro. Celine...
- Si va be', Celine. Celine che scriveva malgrado questo e quello... ma io non sono Celine. Poi, per me è un gioco. Nulla, e null'altro, se non un gioco. E si gioca pi priu, mica per dovere. Si c'è priu si va avanti, altrimenti... Non è che vivo di questo...
- Minchia sei l'uomo delle scuse. Tutte le conosce... una volta é depresso, poi un ci trova priu... ma finiscila.

No qui mi devo fermare. Ci starebbe una scarica di quella sana e buona violenza di cui non sono capace. Quella che reprimo. Ma una bella scarica di boffe sarebbe stata un ottimo contrappunto.


- Maestro, non vuoi ascoltare. Mi sento prosciugato, spento...
- Cazzo, Totò, che rabbia! Mi innervosisci. Hai la fortuna di conoscere una persona che una volta si presenta con i baffi e un'altra volta come Elvira. Hai il carico di un viaggio. Con emozioni a minchia china. Mettici che hai parlato con Cristo, che hai incontrato Bacon. I Radiohead... e vabbè, anche un marginale incontro con...
- Ma scusa, usali tu.
- Non sono nelle mie corde.

Oggi si mangia al Vecchio Club. E chiedo a Benni le polpette. Mi voglio consolare. Una specie di rivincita contro quell'angheria subita da piccolo.
Sicuramente le polpette della colonia estiva erano più buone. Almeno nel ricordo. Ma su queste di oggi non gravano pretese non gradite. Benni ci porta due panini. Uno per il Maestro e uno per me. Nel mio manca u cozzu. La parte finale del panino. Anche il Maestro lo nota. Ci scambiamo uno sguardo. Una frazione di secondo, e ho visto uno sprazzo di umana compassione.

venerdì 18 luglio 2008

L'Oloturia


Ci avevano promesso un'estate fresca. Invece il caldo ci sta attaccato addosso. Un cappotto rovente. E noi, io e il Maestro, andiamo a pranzo.
“Miii cavuru!!!”
“’Veru cavuru c'è, Totò!!!”
“Sei stato a mare?”
“Si”
“Sulu?”
“No”
“E perchè ti identificano con un'oloturia?”
“Lo so, Salvo mi ha raccontato tutto...”
“Si ma ti chiedevo...”
“Mii cavuru chi c'è!!!”
“Mi ha divertito l'idea dell'oloturia...il Maestro... a minchia i mari...”
“Mii non si respira dal caldo!”
“Sì, veru cavuru c'è!... Sai ho raccontato una storia a Sandro, Sandro, quello che aveva un topo in casa...”
“Sempri a solita storia?”
“No, una nuova. Gli è piaciuta e alla fine sai che mi ha detto? Nooo, ma chista è megghiu di Lost”
“Vero?”
“Se. mi rissi megghiu! Con flashback, episodi visti da una angolazione diversa, nuove prospettive, misteri da svelare, e orchi”
“E c'entra Pippo in questa storia?”
“Certamente. Ma ci sono ancora degli angoli bui da illuminare. Non tutto, naturalmente, è veramente come appare...poi...”
“Allora lo scrivi?”
“Non posso!”
“Ma perchè?...”
“E' doloroso scriverne, e poi coinvolge terze persone che...”
“A maggior ragione devi scriverne...”
...
“Quindi non vuoi scrivere di Pippo?”
...
“Allora è questo il tuo scoglio?”

Arrivo della pasta. Con vongole veraci. Che meritano il silenzio, una lode al palato.Io rispetto gli spaghetti, tanto quanto Pippo, e non rispondo. Resto in silenzio. Si mangia in silenzio.

“Ne scriverai Totò? Fallo, ne varrebbe la pena”
“Non lo so, ci penserò”
“A proposito dell'oloturia, conosci il suo meccanismo di difesa?”
“Veramente no”
“Espelle i visceri. Visceri che poi vengono rigenerati. Dovresti prenderne esempio. Hai paura? Esponi le tue parti molli. Scrivi! Cretino!”.
Fuori il caldo riprende il sopravvento.
Il caffè Lui lo prende amaro. Io no.
Prima di andar via mi dice:
“Prendi esempio dal Maestro: difenditi come l'oloturia.”


lunedì 14 luglio 2008

Milano 17 Giugno: Radiohead


Sarei pazzo a non seguirti. Inutile riascoltarli a casa. Dal vivo, dal vivo, che esperienza! E ti ho seguito, ti ho seguito fino a Milano. Presuntuoso, ti ho detto “Porterò un pò del sole del sud”. Prendere l'aereo ogni volta è affrontare la paura del volo. Ma o si ha paura, o si vive. Ogni volta scelgo di affrontare con paura ma ad occhi aperti. Pronto e senza rimpianti. E volo. Milano ci accoglie grigia e piovosa, il suo abito preferito. Un pò di riposo disteso sul letto. Minchia silenzio... giuro che ero quasi disturbato dal silenzio. Mi addormento aspettando un urlo, un colpo di clacson, il rumore di una saracinesca. Almeno un “tunz... tunz... tunz...” da uno stereo... nulla. E dormo . Al risveglio con Davide andiamo a mangiare in un ristorante giapponese. Non mi chiedevo cosa mangiavo, ma le sensazioni del cibo. Cibo da mangiare con gli occhi e vedere con il palato. Senza chiedere spiegazioni. Un esperienza totalizzante, non solo semplice mangiare.
Faccio un pò il turista, con la macchinetta fotografica sempre pronta. Poi Bacon. Una mostra di Francis Bacon. Una ottantina di quadri che mettono a nudo le nostre cicatrici interne. Meno male che non c'era Davide, perchè avrebbe visto le lacrime richieste al concerto. Mai dargli soddisfazione! Siamo uomini mica quaquaraquà. Che cazzo!
Ancora frastornato all'uscita incontro Davide. Poco convinto seguo la sua indicazione e vado a vedere “L'ultima cena” una installazione (?) di Peter Greenaway. Vado. All'uscita ho avuto una sensazione strana. Il piacere che monta con il passare del tempo. Come se le sequenze ritornassero alla memoria. Dandogli alle volte anche un senso.
Ma noi siamo qui per il concerto. Sotto la pioggia arriviamo all'Arena Civica. Fila enorme davanti a noi. Cancelli ancora chiusi. Piove e i piedi nel fango. Poi conquistiamo la nostra postazione. E... da qui non ci si muove. Una birra? No, no, non hai capito: da qui, non ci si muove. Il cielo sopra di noi è plumbeo. Ogni tanto incrociamo gli sguardi per sottolineare i lampi. Per un pò non piove, poi quasi a ricodarci che non si era dimenticata di noi la pioggia ricomincia. Per rifarsi, qualche minuto grandina. Mando da questa ”merda” di città, come ripeteva spesso il Maestro. un sms a Filippo.“Piove e ogni tanto grandina anche”. “Beati voi, qui scirocco e caldo insopporatabile” mi risponde. E qui, in questa città tanto ben descritta dal Maestro, qui, piove.
Finalmente arrivano i Radiohead e il cielo si apre per ascoltare meglio e non piove più. No, seriamente, non ha più piovuto. Per tutto il concerto. Li adoro questi ragazzi. Eccezionali dal vivo. Rivedo Bacon nelle loro facce proiettate ingrandite. E la scenografia, con quelle luci da baraccone da fiera, conquista una sua dignità. La schiena me la sento a pezzi e i piedi stanno sempre più stretti dentro le scarpe. E danzo, come fosse l'ultima volta. Con i Radiohead. Perchè voglio assaporare tutto. Per portarmi via il più possibile di tutto ciò. Dei suoni. Dei volti. Dei diversi odori di fumo, ma anche di erba. Dei Radiohead. Di Davide sorridente. Dell'abbraccio prolungato con Brembi. Di Tom. Ma dai, perchè no? Anche del risultato delle due partite di calcio. Della gentilezza del cielo milanese. E conservarli per farne carne di questo passaggio.

lunedì 30 giugno 2008

Lezioni

Ho incontrato Peppuccio, con al seguito Killer, l'inseparabile cane. Peppuccio mi ferma prendendomi per un braccio. E inizia a parlare. Mi racconta dei rosoli, i liquori dolci, fatti dalla madre. Madre che secondo lui, io dovrei ricordare. Non si capacita che io non possa averne memoria. Killer ci osserva mentre si spulcia.
Come, non ricordi la friggitoria? Mia mamma lavorava lì”.
Ma prima di dirlo parte con una lunga e dettagliata ricostruzione del quartiere. Con tutti i negozi. Come se tutto il suo albero genealogico occupasse il territorio. Colorando con aneddoti i parenti che nominava. “Ma come? Non ricordi? Saro ' u pisciaiuolo. Iddu era me ziu, frate di me matri“. Alla fine gli dico di sì, ma non ricordo quella persona. Killer sdraiato per terra, aspetta annoiato.
I liquori dolci, sua madre, li faceva con diverse essenze. Lui sottolinea soprattutto la gradazione alcolica. Lei, allora, si vantava della varietà dei rosoli. Soprattutto di quello con le fragoline.

A lei veniva speciale!”.
A lui solo a parlare di alcol si illuminano gli occhi. Dalle varie bottiglie, lui ragazzino, furtivamente attingeva spesso. E quando la madre gli faceva notare la diminuzione del livello in alcune bottiglie, lui con gli occhi più innocenti di questo mondo rispondeva: “Mà, l'alcol evapora. Che non lo sai?”.
Ricorda la piccola forma dei biccherini da rosoli, ma lui, tiene a precisare, non li usava.

Nooo, nnu bicchieri d'un quartu vivìa”.
Mi racconta della sfida con suo zio Saro. Per Peppuccio, Saro era uno “tuttu vucca comu u granciu”, vantandosi spesso delle proprie imprese. Quel continuare a ripetere “Mi sono fatto quattro birre”, e “Minchia, lucidissimo sono” a Peppuccio rompeva e fece partire la sfida. Con alcool, alcool puro. Novanta gradi novanta. Mica cazzi! Uno di fronte all'altro. Beve Saro un sorso di quell'inferno. Quasi soffoca, diventa paonazzo e tossisce. Beve Peppuccio, mezzo bicchiere “d'un quartu”. Tranquillo si alza e rivolgendosi allo zio gli dice:

E ora un parrari cchiù!”
Ride nel raccontare l'umiliazione inflitta allo zio chiacchierone. Ricorda anche il velo di fuoco che si diffuse nel suo stomaco. Ma da quel giorno Saro gli portò rispetto. Killer si alza e si stiracchia. Forse ha intuito che siamo all'epilogo della storia.
La mamma di Peppuccio aveva imparato che l'alcool con il tempo evapora. Saro a non sfidare mai il nipote.
Killer scodinzola, allontanandosi con Peppuccio, perchè sa.
Grande maestro Peppuccio.


lunedì 23 giugno 2008

Quello che non c'è






Ho questa foto
di pura gioia
è di un bambino
con la sua pistola
che spara dritto
davanti a sé
a quello che non c'è
(Afterhours)


L'incontro con Brembi. Brembi che porta sempre, nell'angolo degli occhi, un velo di tristezza. Che è sempre lì. Anche nei momenti più allegri. In quell'angolo dei suoi occhi neri e furbetti.
Due amici si incontrano. Ed io capisco il suo sogno di volo. Mentre mi racconta di sè. Parla. Ogni tanto si illumina con un sorriso. Anche io, parlo. Ma io mi reputo noioso nei discorsi lunghi.
Un caffè dimenticato dopo uno squillo. Attraverso il telefono l'apertura di una sua ferita. Quasi una perdita di controllo. La sofferenza di non essere amato da chi ami. Il dolore che non sai come seppellire. Poi dice e non dice, nasconde lo sguardo, quasi un velo a proteggesi. Ed io lo rispetto.
In casa sua ho avuto un rigurgito. Subito riconosciuto come Milano. Perchè Milano lascia in bocca un retrogusto ferroso. Che ti porti dietro anche quando ti allontani dalla città. Dalla finestra arrivavano i cinguettii di decine di uccelli. Dopo una doccia Milano era scivolata via dal mio corpo. Gli uccellini continuavano a svolazzzare, quando noi andammo a cena.
Incantevole la luna apparsa sopra Bergamo. Inchiodata adesso in una foto. Sdolcinata, ma bella. Che riesce a commuovere anche un leone.
La polenta taragna mangiata a cena era salata. Ritornato a casa di Brembi mi sarei attaccato ad un idrante. Mi accontentai di due biccheroni d'acqua.
No, non ho avuto incubi. Non potevo. Come potevo. Ho dormito con accanto un angelo.
Inchiodata in una foto adesso la luna è uno schifo. Anche un pò sfocata.

venerdì 13 giugno 2008

Duetto




Ci avviamo verso la trattoria...
Il cuore, mettici il cuore.
Davide si è appena tagliato i capelli...
Non andare troppo sullo scontato.

Orgoglioso di dimostrare meno anni. A me sembra più vecchio, ma non glielo dico per non deprimerlo...
No, no, non ci siamo, non c'è forza.

Come al solito ancora prima di arrivare mi comunica la sua scelta. “Minchia, oggi pasta a carrettiera e ca' muddica!!!”. Io e lui sappiamo che non sarà la sua scelta definitiva. Ma facciamo finta di crederci...
Vedi, stavi ingranando e poi ti sei perso.
All'entrata nessuna insegna. Due piante ai bordi, due esemplari di rododendri assetati...
Seee.. u rododendro, u rododendro, arrivò u botanico. Scrittura. Qui parliamo di SCRITTURA, non di botanica...

Il posto si presenta pulito. Il cuoco, nel suo metro e mezzo di cucina, trita una montagna di spicchi d'aglio. Mi guarda, io accenno un saluto...
A solita frocia. Ouuuh , n
un ci nteressa !
Naturalmente, Davide si prende una fetta di arrosto panato. Lo prendo di contropiede e ordino io la mezza
carrettiera. E la birra...
Non capirai mai, i virguli i metti a muzzu. Iddu scrivi, e poi qua e là ecca i virgole.Unni vannu vannu.

Ogni ordinazione passata dal cameriere al cuoco termina con “Sciupì”. Con un po' di sfacciataggine chiedo. “Sciupì è il nome del cuoco”. Mi risponde il cameriere indicandolo... Totò, qui Sciupì non interessa a nessuno. L'anima devi tirare fuori quella fottutissima anima. Se c'è!?
La cucina è a vista. Ogni tanto osservo cosa e come cucina Sciupì. Come butta quei fili rigidi di pasta...
Fermati! No, brodo primordiale NON LO DEVI USARE. Non cominciamo col caleidoscopico e minchiate del genere. Tu non parli così. Non sono parole tue.

L'irresistibile gesto del cuoco nell'assaggiare il condimento portandolo con un dito alla bocca. La pasta con una spolverata di muddica atturrata è eccezionale...
La cucina, la cucina non trattarla, è un campo minato. Lascia stare, non sei pronto. Si vede che per te è ancora presto per parlarne.

Anche Sciupì è rasato di fresco. La sua nuca è veramente affascinante.
Mentre divoro la pasta, ogni tanto lo guardo. Davide mi dice che è tunisino. Ha occhi nerissimi e grandi. Me ne potrei innamorare...
Levaci manu Totò, unn'è cosa. Si' lagnusu! Ma tu liggisti Leopardi... e La versione di Barney? Nenti, si' lagnusu.
Volevo un sogno a cui aggrapparmi, e solo fragili liane a reggere il tempo
avevo un cuore puro fattosi cupo per mancanza di coraggio...
A finemo ccà? Finemula ccà! Ciao Totò!


lunedì 9 giugno 2008

L'ultimo pianto di Sandro


Iu m'a spirugghiu!”
Minchia, me le sarei rimangiate quelle quattro parole subito dopo averle dette. Ma ormai era fatta. Legato a quelle parole dovevo trovare il modo di uscirne a testa alta. Rimisi nel marsupio la chiave della “mia” nuova casa. E andai via, da solo. A vivere da solo. Quella chiave la mia forza, la mia indipendenza. Poco altro nel marsupio. Fazzolettini di carta, un preservativo e un portachiavi con Bart. Quello dei Simpson. Un piccolo spaccata della mia vita.
Poi in tre mi bloccano per strada. Mi fanno scendere dal mio vespino.
Nulla di prezioso da difendere, ma il mio marsupio non lo mollavo. C'era parte della mia dignità in gioco. Buttato per terra, guardavo di sbieco il mio vespino grigio. E loro, sbucati quasi dal nulla ad aggredirmi. Una spinta. Un'altra. Un cazzotto e io per terra. Un calcio sferrato al mio fianco. Faceva male. Non mollavo però. Cazzo, se faceva male. Ma non mollavo la presa. Era doloroso respirare. E l'unico pensiero era “Il marsupio no... Il marsupio no...”. Ma loro stavano avendo la meglio. Il dolore alle costole era insopportabile.
Se non fossi uscito non sarebbe successo. Se mi fossi ritirato prima non li avrei incontrati. Ma quello che doveva succedere era già successo. Fossi stato solo avrei pianto. Ma ora no, non potevo arrendermi. No, adesso no! Piegato in due per terra, e quei tre che infierivano su di me.

Placida notte e verecondo raggio della cadente luna”,
mentre mi aggrediscono disteso per terra cominciavo a delirare. Profetico delirio poetico .

E tu che spunti
fra la tacita selva in sù la rupe
nunzio del giorno; ...”
Intervieni. Intervenne e i tre si diedero alla fuga. Una guardia giurata di servizio nell'ufficio postale. Mi aiutò a rialzarmi. Feci uno sforzo enorme solo per pronunciare “grazie”. E solo allora allentai la presa delle mie mani che stringevano il marsupio. E mentre mi allontanavo tirai fuori Bart con le chiavi. Li strinsi nella mano destra. Avvicinai il pugno alle mie labbra. E iniziai a piangere.


sabato 31 maggio 2008

I Maestri del colore: Goya

La famiglia reale” (part.) opera di Francisco Goya(1746-1828)

mercoledì 14 maggio 2008

Una notte



Il fumo invade tutta la casa. Sa di carne alla brace. Trasporta il tranello dell'odore di un inesistente arrosto. Tanino ha messo sulla graticola un bel pezzo di grasso. Tutto il quartiere vedrà le nuvole di fumo e avvertirà l'odore. A tutti arriverà il suo “Oouuuh, sugnu ccà”. Tutti capiranno. Taninu u stigghiularu grapiu.
Sono solo le 18,00. Le taverne sono piene mentre il mercato langue. Tanino non è il solo stigghiularu. Sono due e l'altro, u biunnu, apre un pò più tardi. Hanno orari leggermente sfasati. Due belle distinte sfumazzate.
Al tramonto la città, come in un sogno, diventa albero e le sue strade rami. E nel cuore agonizzante di questa Palermo le persone sono uccelli. Ognuno con il suo verso per ribadire la propria presenza. Uno svolazzare con accenni di danza o più spesso di lite. Fino al primo buio.
L'ultimo a cantare è sempre quel cretino. Con l'autoradio a tutto volume sotto il balcone della ragazza che non lo caca. Ma lui insiste con quelle canzoni finte napoletane.

mi son fatto l'amante... una bionda attraente... tu per me un si cchiu niente..."
Cretino!
Fra le 20 e le 21 la colonna sonora cambia. Un fruscio di televisioni tutte sintonizzate su canale cinque. Un timido silenzio volendo.
Qualche passo risuona nel vicolo. Qualcuno chiama un nome incomprensibile. Quasi in lacrime. Strepitando un franco, anto, marco, azzo ne sò. Comunque il nome poco importa, il risultato sarebbe lo stesso. La polizia lo carica in macchina e si porta via franco, anto, marco, azzo ne sò.
Alzando un pò il volume del televisore si riesce a isolarsi abbastanza. Ma la notte non è ancora iniziata. Quando cominciano lontani tamburi a rullare allora sì, inizia la festa. La musica arriva solo con i bassi. Un tunz tunz tunz che a volte fa tremare i vetri della finestra. Non li invidio. Vorrei solo dormire in silenzio. Tunz tunz tunz. Alle volte, purtroppo non sempre, diventa una nenia e mi ci abbandono. Allora dormo, dormo e continuo a sentirlo ” tunz tunz tunz...”. Poi le bottiglie tirate contro una saracinesca. Le telefonate a sguarcia gola. Perchè lei non si meritava di essere trattata così. Lo strunziamento pubblico del suo, precisa, da questo momento ex compagno. Ma no, cinque o dieci minuti, nooo. Mezz'ora. MEZZ'ORA. E' andata avanti mezz'ora, passeggiando sotto il mio balcone. In un vicolo strettissimo cassa risonante magnifica. Ed io sveglio. Gli occhi sbarrati. A considerare se un secchio d'acqua fosse abbastanza vendetta.
I peggiori sono gli ultimi a lasciare la piazza. Quelli andati via di mala voglia. Sono appena le 5 cosa cazzo vai a casa a fare a quest'ora? Allora si inventano un intrattenimento. Così tanto per allungare la serata. Un classico è la pedata ad una saracinesca, che grazie all'acustica particolare del luogo, diventa un'onda anomala cacofonica. Quel fastidio che entra nell'orecchio e si diffonde attraverso tutti i nervi del corpo.
Alle sei in punto, come tutti i giorni, anche la domenica lo è, l'alzata della rumorosissima saracinesca. Una mattina incuriosito ho voluto vedere chi fosse. Un vicino che usa il magazzino all'angolo come garage per la motoretta. Che cazzo gli dici? Quello va a lavorare con quel mezzo. Certo un'ingrassata alle guide di quella specie di fabbrica di rumori fastidiosi non gli farebbe malissimo.
Che fai? Dormire? Ormai è finita! Mi faccio il caffè, con la gatta attaccata alla tuta. Reclamante la sua prima razione di coccole. Dopo il caffè esco. Un vicino mi ferma. Condividiamo la mala nottata. Ha perfino chiamato qualcuno che dovrebbe essere l'autorità. Che lo invitava a cercare di dormire perchè “son giovani, li lasci divertire...”
Dalla fantasia al potere alla libertà del rompimento del sonno.
Meno male che Palermo appena sveglia sa come mettere di buon umore.
Su un balcone sventola una bandiera. Nera con tre lettere. MCN.



venerdì 4 aprile 2008

I Maestri del colore: Giotto


La cacciata dei diavoli da Arezzo” (part.) opera di Giotto (1255/60-1318/19)



mercoledì 26 marzo 2008

Fierezza




Mi vengono incontro minacciosi. Io cercavo solo cibo. Sono venuti in tre a cacciarmi. Uno è rimasto in disparte. La fame mi ha fatto esporre troppo. In due si chinano e battendo i palmi delle mani sul pavimento procurano un rumore insostenibile. Quasi un rito tribale. Di caccia e morte. Rito nel quale io sono la vittima. Giocano duro, chiudono la porta. In questa stanza non ci sono altre uscite.Cerco di ricordarmi la strada del ritorno. Tutto questo chiasso mi confonde. Mi circondano. Non riesco a trovare la strada, sola una fuga fra gambe divaricate. Indicandomi urlano. Mi sento incastrato. Frastornato e indeciso resto un attimo immobile. Dall'alto un piede pesante, veloce si abbatte su di me. Nell'attimo del silenzio successivo, sento le mi ossa scricchiolare. Cerco un bel pensiero al quale attaccarmi, prima di morire. Con un pezzo di carta bianca vengo raccolto e rinchiuso in un sudario di plastica. Continuo a vedere ancora quell'espressione. L'ultima immagine vista. Il bel pensiero. Vivido è stampato nei miei occhi. Il viso da vinto e mortificato del quarto uomo. E la sua forte sensazione di inadeguatezza. Causate da me anche se a costo della vita.


venerdì 21 marzo 2008

Fratelli


In macchina. In silenzio. Abbiamo ostacoli altissimi fra noi. Tu non sei da solo. Non sei mai da solo. Il tuo fianco è coperto. Non puoi apparire solo. Non ho nulla da condannare né da difendere. Come una spugna, assorbo e ritorno ciò che mi è dato. I paraventi li capisco, li ho usati anche io.
Come se il tempo fosse stato immobile, dopo anni il ritorno e gli stessi ruoli si impossessano di noi. Senza nemmeno la pausa per un “come va?”. Ma noi non siamo da discorsi. Dal silenzio e da uno sguardo traiamo risposte. Gli uomini parlano poco. E mangiano. Scelta del cibo legata a ricordi lontani, e ad un perduto sapore. Affetto mangiato con ingordigia. Per difendersi dalle fette di tristezza di queste feste. Per chi convive con frane e buchi interni. La cassata un abbraccio non dato. Il mandarino candito una pacca sulla spalla. Gli uomini soffrono in silenzio e mangiano. Beati, mangiano. Non parlano, no, non parlano. In comune più censure che ricordi narrabili. Solo nel breve tempo dell'ascensore sono dicibili parole di padre amorevole. Passate come “dote” , un pò per dovere un pò per affetto.
Variazioni in casa tua poche. Un fidanzato in meno e un muro in più. Tutto è così chiaro e nascosto. A coprire il silenzio un televisore sparge buonsenso. Cerco di resistere per non vomitare. Il caffè salvatore arriva tiepido. Infine la fuga con lo scudo di un appuntamento con Filippo.
Festa nel ricordo del frammento di famiglia di cui facevamo parte. Che non è mai esistita come noi volevamo. La ricostruzione di un ricordo di festa perso nel tempo e nello spazio.
Un altro agnello sacrificato inutilmente.
Buona Pasqua





martedì 18 marzo 2008

Capiddi





Sa cosa ntisiru i tò capiddi
ca scumminati ti s'impinnanu
supra a testa
storie vissute rimmintati
matri ca parra e patri ca riri
un pugno na panza
arrivatu du cielu
e carta i cubaida
pigghiata pì bummi



venerdì 14 marzo 2008


Fermo sull'orlo

aspetto risposte

mai avute

con pene attaccate

come muco


lunedì 25 febbraio 2008

I Maestri del colore: Giorgione

Madonna in trono col Bambino e i Santi Liberale e Francesco” (part.) opera di Giorgio (o Zorzi) da Castelfranco detto Giorgione (1477/78-1510)

lunedì 18 febbraio 2008

Mostra


Appena fatti pochi metri il paesaggio cambia. Non avevo idea del posto. Una conca, un avvallamento, un altro mondo. Passiamo davanti una cappella votiva con accanto una fontanella. Dall'altro lato della strada una schiera di magazzini. Tutti chiusi. Simili ad una schiera di piccoli garage. Il campo coltivato spande umidità e odore di terra.
Per strada nessuno, solo noi due a piedi. Io e Phil. Dopo un pò arriviamo in una piazza. All'ingresso della quale stazionano due uomini e un ragazzino. Sulla destra una chiesa, poco prima una statua di padre Pio. A grandezza naturale, Il ragazzino rivolgendosi agli adulti sussurra: ”Ma chi vuannu chisti?”. Faccio finta di non aver sentito.Phil avviluppato nel suo silenzio e nella poca fede sulla mia orientabilità. In questi casi vorrei anche io imparare a sparire completamente. Continuo a girare, ma dalla piazza non c'è uscita altra uscita. Telefono. “Ma dov'è?”. Dobbiamo ritornare sui nostri passi. Quella che poi mi verrà descritta come la prima postazione di guardia, è dove dobbiamo ritornare. Il covo non è immediatamente identificabile. Sento la voce di Reda. La seguo e finiamo in uno scivolo che porta in un condominio. Ritorniamo indietro seguendo la voce. Uno stretto passaggio. E' l'entrata del covo. Vedo solo le foto. Le mie foto. Non mi sembra vero. Come tutta la strada per arrivare. Belle. Sembrano vere, mi viene da dire. Lo dico. Le guardo come fosse la prima volta. Ho una sensazione un pò straniante. Mi chiama Davide. “Ou, unni cazzo si?”. Gli indico la cappelletta votiva. Le foto, belle, belle davvero. Il mio avatar conteso da Davide. “Ou, u vogghiu chistu. Ora tu porti tu però. Mi ci a mettiri a dedica e poi mu rù.”. Come si fa a dire di no a lui? E poi la dedica : “Ou, u capisci chi ti vogghiu riri?”. Telefona anche Salvo. Mi sento consolato nel non essere il solo ad aver avuto difficoltà ad arrivare. Altra consolazione arriva con la telefonata di Maurizio.

lunedì 4 febbraio 2008

I Maestri del colore: Gauguin


Vahine no te tiare (ragazza con il fiore)” (part.) opera di Paul Gauguin (1848-1903)

venerdì 1 febbraio 2008

Effetto birra

Avevo bevuto più di una birra. Dimenticando che tutta la birra bevuta è futuro piscio. Stavo ritornando a casa a piedi. Lo stimolo era forte. Da piccolo credevo che stringendo forte con tutte e due le mani la mia coscia, sarebbe diminuita l'impellenza del richiamo. Alle volte funzionava. Spesso no. Ma ci credevo lo stesso. Ora, per strada, come faccio? Serata di merda. Iniziata e finita allo stesso modo. Serata spesa in chiacchiere perse. Triturare parole e bere birra. Serata persa spesa in chiacchiere. La vescica è colma. Continuo a camminare. Adesso l'obiettivo è trovare il posto adatto. Un luogo non molto illuminato. Non una strada di passaggio. Ho avuto sempre problemi a farla davanti ad altri. Quando andavo nei gabinetti pubblici non ce la facevo se c'era qualcuno. Vecchie inibizioni, e qualcuna ancora va alla deriva nei miei pensieri. Più di una, sicuro, ma non le ho mica contate tutte le birre bevute. Adesso tutte a premere per riprendere aria. Per tornare fuori. Posta la causa, l'effetto si presenta puntualmente. In un portone! No, non è elegante. Immagino già il calore che si diffonde sulla gamba. E i pantaloni inzuppati di freddo. Non vorrei arrivare a tanto! Un vicolo, ecco la mia salvezza. Mi guardo in giro. Mi avvicino al muro e apro la cerniera dei pantaloni. Inizio a liberarmi. Ahhh... Giusto a metà di “Ahhh...” sento aprire una persiana. Il cigolio è quello classico di una vecchia persiana. Non posso più fermarmi. Lo scatto dell'accendino mi arriva nitido. Sono tentato, ma non controllo. Nell'orgasmo di quella pisciata tanto trattenuta nulla può fare breccia. Ahhh... Un brivido di piacere scorre lungo la schiena. Finalmente! Non alzo lo sguardo per verificare se ci fosse qualcuno. Mi sento quasi più toco. Con la coda dell'occhio vedo un' ombra affacciata al balcone. Con aria da toco mi avvio alleggerito verso casa.

sabato 19 gennaio 2008

I Maestri del colore: Gainsborough

Lady Sheffield” (part.) opera di Thomas Gainsborough (1727-1788)

mercoledì 9 gennaio 2008

Messaggi




Messaggi distorti
messaggi negati
baci dati in fretta
giusto un saluto
prima di partire o fuggire
Chiaro nelle domande o
solo messaggi distorti?
Era dolore o cosa
quella storia di buio
che non sai raccontare?
Hai visto il nascondiglio?
Visto e toccato
e cazzo mi sono sporcato
Che cos'era
se non era infanzia?
Ce n'era una diversa?
Pasta scivolata dalle mani
prima di arrivare a casa
olio versato
e prova di speranza
Non più accecato dal miracolo
guardo la vita con paura
o chino piano il capo
cercando nel nascondiglio
Imbrigliato dalla colpa
ma curioso
ho dato solo
messaggi distorti
messaggi negati
baci dati in fretta
giusto un saluto
prima di partire o fuggire