lunedì 29 settembre 2008

Fine anni 50'



Rosa e Salvatore. Abitavano al piano sotto quello della nostra famiglia. Il sabato sera, dopo cena, salivano da noi per vedere la televisione. Nel palazzo, solo noi e la famiglia che abitava al primo piano avevamo un televisore in casa.
Rosa e Salvatore erano sposati e non avevano figli. Per noi bambini, i grandi che non erano parenti acquisivano il titolo di signore o signora. La signora Rosa: bruna, viso tondo, sempre sorridente. Il signor Salvatore: biondo, robusto e sempre pronto allo scherzo.
Lui impazziva per le tette di Abbe Lane e per le velatissime cosce delle gemelle Kessler.
Io impazzivo per lui.
Fu un'illuminazione, quando capii cos'era quel malessere che provavo quando lo vedevo. Tutto uno sfarfallio nello stomaco, tremori alle ginocchia, e quello sguardo da pesce lesso che non riuscivo a togliermi. Mi ritornava sempre quella visione: lui nudo sotto la doccia. Anche mio fratello avevo visto nudo, ma non provavo le stesse emozioni. Il signor Salvatore era l'uomo nudo. Mio fratello era... svestito.
Il signor Salvatore lo vidi sotto la doccia. E naturalmente... presi una sbandata. Ma letteralmente. Come un mancamento, faticando a resistere per non tornare sui miei passi a rivedere. Un lampo accecante, e l'immaggine mi si fissò negli occhi.
Capì mai le attenzioni di quel bambino? Credo di sì, lui era sveglio. Un giorno gli senti sussurrare qualcosa a mio padre. Assenza di donne... troppo casalingo e “sistemato”. Indicandomi con i suoi occhi azzurri.
Sentii e... capii la voglia di sprofondare.

lunedì 22 settembre 2008

Fave II

Fave a cunigghiu: non so che centri il coniglio nel nome, essendo un piatto totalmente vegetariano. A base di fave secche, bietola e aglio. La nonna Barbara era maestra nel prepararle. Pizzicava le fave secche, togliendo quella specie di occhiatura nera e le metteva in acqua dove le lasciava riposare una notte. Il giorno dopo cambiava l'acqua alle fave, vi aggiungeva alloro, diversi spicchi di aglio con la camicia, e un pizzico di origano. Quando le fave erano cotte vi aggiungeva le bietole, facendoli cuocere insieme, fino alla cottura della verdura.
Ottima forchetta la nonna. Con solo due denti non rinunciva a nulla. Nemmeno alle castagne secche. Le scioglieva in bocca come fosssero caramelle. Cruzziteddi le chiamava. Non so se filogicamente sia corretto ma fin da piccolo per me era un vezzeggiativo di crozza, teschio. Alle volte rabbrividivo nel pensare a mia nonna sciogliersi in bocca piccoli teschi.
Mio padre le ripeteva come tormentone:
“A vucca è n'aneddu ca si mancia palazzi e casteddi ... e vossia è a bon puntu!”
Lei sventolava la mano destra davanti l'orecchio. A voler scacciar via lui e le sue insinuazioni.
Quando cucinava i fagioli secchi, la nonna, metteva nella stessa pentola una manciata di castagne secche. Che portavano alla pietanza una dolcezza particolare. I fagioli erano borlotti, e la pasta che veniva aggiunta spaghetti spezzettati. Mai pasta corta.
La zia Concetta, figlia di nonna Barbara, non mangiava fagioli. Allora mi chiedevo perchè rinunciasse a quel piatto delizioso. Forse perchè non digeriva quei legumi o forse non le piaceva il sapore. Poi capi che lo faceva per evitarne le conseguenze. Qualche incontrollabile scorreggia.
Alle fave a cunigghiu, fatte da sua madre, però non riusciva a resistere. Anche se lasciava nel piatto tutte le bucce delle fave.
Tre volte mi sono rotto la testa. La prima volta con una bacchettata datami dal maestro della scuola elementare. La seconda durante una “pitruliata”. Una battaglia a colpi di pietra fra due squadre di ragazzini. Non era un gioco, ma vere e proprie guerre per conquistare un campetto. O semplicemente per sentirsi più tochi rispetto a quelli che abitavano al di là del nostro isolato. Durante uno di questi scontri una pietra mi ruppe la testa. Diventando l'eroe del gruppo per qualche giorno. La terza volta a causa di un ago da cucire che non volevo restituire. Zia Concetta che rivoleva il suo ago mi ruppe la testa, tirandomi un bastone usato per lo straccio. Lei mi aveva avvertito. Con quel suo tono di voce sempre acutissimo.
“ Viri ca ti tiru u vastuni... viri ca tu tiru veru...”
E lo tirò. Colpendomi, non so quanto involontariamente.
Quell'ago doveva servirmi a finire un vestitino. Spesso cucivo abitini. Fatti con il tulle usato per confezionare i sacchettini per i confetti. Abitini da fare indossare al bambolotto di turno abbandonato da mia sorella. Io lo inciuciavo con il tulle e qualche pezza rubata a mia madre. Poi quando era pronto lo introducevo in società. Lo presentavo a mia sorella e ad Enza, la cuginetta che giocava solitamente con noi. Davamo un nome al pupo. Simulando un battesimo. Facevamo poi una piccola festa, con una bottiglia di aranciata. Quella fatta con le bustine e l'essenza. E i confetti ai quali avevo sottratto il tulle. Il bambolotto ritornava a nuova vita, e per qualche pomeriggio aveva tutte le nostre attenzioni. Smisimo con questo gioco quando in casa entrò un maialino. Un maialino vero . Grande quanto un cucciolo di cane.

lunedì 8 settembre 2008

Fave I


Cibo condizione culturale. Ma anche trasmissione di affetto materno. Tipico di mia madre ogni volta che tornavo a casa era di chiedermi:
“ Manciasti? ”
La sua preoccupazione principale era il nutrimento. Nient'altro.
Non importava quale fosse la mia risposta. Lei invariabilmente replicava con
“ 'nca mancia.”
“ Maaa, ho detto che ho mangiato!... “
“ ...e tu manciatillu senza pani. “

Certo la nostra generazione la fame vera l'ha conosciuta attraverso i ricordi soprattutto delle nonne. Mia nonna Barbara raccontava spesso del periodo durante la II guerra mondiale e della fame patita in quei giorni. Gli espedienti per trovare cibo. La borsa nera. Che non riuscivo a capire che fosse. Ci raccontava di quella volta che trovò una gallina. Comprata illegalmente. Tirandoci fuori la cena per tutta la famiglia. Concludeva sempre le sue storie raccontando delle abbuffate di faggiolina. Noi ragazzini l'ascoltavamo con gli occhi sbarrati. La nonna precisava ogni volta:
“ Non era vera faggiolina. Sarina, mia cugina, lavorava come cuoca presso u principe. Quello che stava dalle parti di via Alloro. U principe era principe ma ormai non è che navigasse più nell'oro. “
Sarina era una donna magrissima. Dall'aspetto fragile, ma in realtà instancabile. Nubile per scelta, non faceva solo la cuoca dal principe. Era la donna delle pulizie, ma anche la sarta, lei faceva la spesa e, sempre lei, cucinava.
In quella scelta di solitudine qualcuno insinuava che c'entrasse u principi.
La nonna Barbara continuava:
“ Quando cucinava le fave pu principi, raccoglieva tutti i baccelli vuoti e ce li portava. Noi li tagliavamo a striscette. Le facevamo bollire. Una volta cotte le buttavamo in padella dove era stato soffritto dell'aglio. Credetemi, faggiolina precisa era. Certo le bucce non devono essere vecchie vecchie. Bisognava usare le prime fave, che hanno la buccia tenera... “
Il primo campo coltivato a fave lo vidi molti anni dopo di notte. Perdendoci il portafoglio, scivolato via dalla tasca dei pantaloni abbassati. Durante una scaramuccia sessuale. Mentre il suo amico autista aspettava in macchina. Arrivati lì su una spider rossa. In tre. Lui subito mi precisa che, non avendo la patente, si fa accompagnare da un amico. Mi aveva abbordato dicendomi:
“ Sei qui in attesa che qualcuno ti rapisca? ”
“ Non sarebbe una cattiva idea... “
“ Allora sali. “
Io lo avevo notato su quella spider rossa. Ma vedendolo in compagnia di un'altra persona avevo perso le speranze.
Era stata la classica giornata di merda. Chiuso nella cucina dell'albergo Kinzica di Pisa, dove lavoravo. A cucinare, addossandomi il lavoro del collega assente.
Non avrei mai pensato si potesse concludere in un campo di fave.