lunedì 24 novembre 2008

Dai, che sei solo!




“E dai, che sei solo!”
Lo ripete a voce alta. Più volte durante la mattinata. Lui è Michele. Ha riaperto la sua vecchia friggitoria nella piazzetta. “E dai, che sei solo!” è un auto incitamento e forse anche una bestemmia. “Dai, che siamo soli!” è l'unica variante. Detto di domenica mattina, rivolgendosi al barbiere. Perchè unici in tutto il mercato ad essere aperti.
”Dai, che siamo soli!”
Michele non è solo. Il fratello e la sorella lavorano con lui.
A Michele piace la musica anni sessanta. Non la fa mancare mai. Di buon'ora appena apre accende il suo piccolo stereo e via con Camaleonti, Little Tony, Michele (Michele il cantante), Rita Pavone, ecc... Lui stonatamente alle volte afferra un ritornello e lo uccide.
Michele è il pioniere del vecchio far-west. Lui porta un pò di regole dove prima vi era il caos. Assediato da una tribù di biondi indiani cattivi. Una tribù composta quasi esclusivamente da donne e bambini. Il trentottesimo caval leggeri, in una retata, ha portato dentro il carcere del fortino gli uomini. Niente di grave, piccole normali cose.
“Furtarelli piccolo spaccio... cose da nulla. Perchè vorresti dire che dovrei vergognarmi che mio marito è in carcere? Ho il marito in carcere! E allora? “
“E dai, che sei solo!”
Michele non protesta se loro si impossessano di un suo tavolino. I bambini, della tribù di biondi indiani cattivi, spargono immondizzia nella piazza. Così, per giocare. O si abbassano i pantaloni e pisciano in un angolo della piazza. Mentre ci sono clienti di Michele seduti a mangiare. E lui pazientemente cerca di allontanare quei diavoli urlanti. Sua sorella cerca di ripulire.
“E dai, che sei solo!”
Michele non solo fa le panelle, ma spesso fa pure le “rascature”. Nessun ormai le fa più. Vengono fatte con la farina di ceci cotta, rimasta attaccata alla pentola. Dando una forma triangolare. Vengono poi fritti come le panelle.
“E dai, che sei solo!”
La tribù di biondi indiani cattivi usa la guerriglia. Fa un blitz e si ritirano. Mandano in avanscoperta i bambini. Invadono la piazza. Discutono anche:
“Quannu muriu me patri mi misi u luttu, ma dopo na simana minni ivu a mari.”
“Certo uno ca è vivo ne che pò fari a vita du muartu”
“Veru Francè, però u viri. Dopo na simana ca muriu me padri minni ivu a mari. Ma si mi murissi me figghi mancu dopo un annu mi vinissi u disiu du mari...”
Nel frattempo uno dei figli, Giovanni il più piccolo, disturba chiunque passi. Punta la sua pistola, carica di pallini di plastica arancioni e spara. Allo sguardo seccato dell'ennesimo passante colpito da uno di quei pallini arancioni la madre lo richiama dicendogli:
“A fiiinisci... chi t'ammazzassiru!!!”
“E dai, che sei solo!”
Ormai nella zona Michele è associato a quella frase. Spesso al suo passare qualcuno gliela urla dietro.
“Dai, che sei solo!”

lunedì 17 novembre 2008

Boris



La mia passione verso le cotolette, si rafforzò quando conobbi Boris.
Boris, incontrato dopo il mio ritorno da Amsterdam. Di notte, davanti la stazione centrale. Lui su una Volkswagen verde. Mi avvicinai e gli dissi:
“ Ti andrebbe di fare l'amore con me? ”
Lui sorrise e mi fece cenno di salire in macchina. Inizio da lì una storia durata quasi venti anni.
Boris era bravissimo in cucina. Suo piatto forte era u bruciuluni. Il cosiddetto falsomagro. Una vera bomba di piacere. Metteva pan grattato, listarelle di lardo e formaggio, uova sode, mortadella, pinoli e uva passa. Il tutto avvolto da una fetta enorme di carne. Prima veniva rosolato e poi cotto nella salsa.
Ma io impazzivo per come cucinava le cotolette. Che per anni ho cercato di imitarle senza mai riuscirci. Eppure lo osservavo sempre quando cucinava. Ma il segreto non sono riuscito a scovarlo.
Boris amava i formaggi. Non mancavano mai nel suo frigo. Dove teneva un contenitore con formaggi di due o tre tipi diversi. Non gradiva molto il burro. Tranne nei dolci. Come suo padre, Boris, impazziva per i dolci. Mi raccontava che suo padre, che viveva a Camporeale, veniva ogni tanto a Palermo per sbrigare degli affari. Non solo economici ma anche di cuore. Quando era a Palermo vi passava anche la notte e dormiva in albergo. La sera, prima di ritirarsi, comprava una cassata siciliana da un chilo. Arrivato nella sua stanza scartava la cassata e ne mangiava un pezzo. Poi poggiava il vassoio sul comodino. Durante la notte ogni tanto si svegliava e ne mangiava un pò. Al mattino il vassoio era vuoto e la cassata finita. Compresa tutta la frutta candita.
Il padre di Boris aveva due grandi amori: le donne e la cassata siciliana. Credo sarebbe impazzito di piacere ad avere una donna a letto e una cassata sul comodino.
Boris dal padre aveva ereditato solo la passione per la cassata.

“Maestro non trovo come chiudere... avevo una mezza idea di riprendere il discorso sull'oloturia. Ho scoperto che in alcuni paesi viene utilizzata anche in cucina. Appena pescata viene pulita ed essiccata al sole. Poi viene fatta rinvenire, e a pezzi viene cucinata insieme a delle verdure. Ma a parte queste generiche indicazioni, non ho trovato una specifica ricetta a base di oloturia.”
“E ti servirebbe?”
“ Sì, perchè sarebbe la chiusura di un cerchio.Altrimenti non saprei come chiudere...”
“Ma è semplicissimo Totò”
“Sarebbe a dire? Cosa scrivo per chiudere?”
“Fine.”

lunedì 10 novembre 2008

Da solo




Intorno ai 12-13 anni passavo interi pomeriggi in casa. Non abitavamo più con la nonna. Mio padre, grazie all'eredità lasciatagli da sua madre, comprò una casa a Romagnolo. Lì, per la prima volta, c'erano dei momenti in cui mi ritrovavo a casa da solo. Quando i miei uscivano io preferivo restare a casa. E loro uscivano regolarmente tutti i pomeriggi. O andavano a fare la spesa o a trovare nonna Barbara. In ogni caso mancavano due tre ore. Appena uscivano assaporavo un senso di libertà quasi assoluta. Solo in casa, e poter fare qualunque cosa. Per lo più, quel senso di libertà, si concretizzava nel prendere possesso della cucina e giocare a cucinare. Imbastivo minestrine con quello che trovavo a disposizione. O qualche crema dolce. Cucinavo e mangiavo ciò che preparavo. Quando finivo ripulivo tutto come se avessi commesso chissà quale delitto. Mancava poco che eliminassi anche le impronte digitali lasciate in giro. Aprivo anche balconi e finestre per fare aerare l'ambiente.
Non doveva restare nessuna traccia di ciò che avevo fatto. Non sempre mi riusciva. Una volta mi capitò di non calcolare bene i tempi. Rientrarono trovandomi con un piatto di polpette fatte con patate grattuggiate e uovo. Mi imbarazzava che loro scoprissero questo mio segreto. Anche se mia madre quella volta mi disse:
“Perchè non ne hai fatto di più?”
Io arrossii e mi sentii colpevole. Come sempre.

“Sì, forse qualcosa di buono c'era...Totò”
“Maestro, dice vero? Perchè mi sentirei incoraggiato.”
“Nel senso di colpa.”
“Ho capito. Come al solito Lei sostiene che l'unica cosa buona che ho scritto, a parte una poesia, è quello che devo ancora scrivere.”
“...”
“Mi vuole dire che devo rimpolpettare tutto e riscrivere quello che ho già scritto?”
“Totò lo sai, perchè lo chiedi?”

lunedì 3 novembre 2008

Prima comunione




Pantaloni blu e giacca grigia, con uno stemma sul taschino. Il primo dei miei pochissimi abiti da cerimonia. Indossato per andare verso la santità. Per dividersi le spese i miei fecero coincidere la mia prima comunione con quella di mia cugina Enza. Quasi un matrimonio nelle nostre fantasie di bambini. Ed io che recitavo la parte dell'ometto ringalluzzito da quel vestito, che i miei avevano comparato a rate da Bellanca & Amalfi.
Io non potevo non essere che il prescelto. Perchè quel dio aveva posato la mano su di me. Ed io, che in casa ero soprannominato la bocca della verità, ero sicuramente un santo.
I sacchetti per i confetti, non erano di tulle, ma una specie di valiggetta di plastica trasparente. Che come tradizione confezionammo in famiglia. Cinque confetti e il bigliettino con il mio nome e la data della cerimonia. Tutta la famiglia attorno ad un tavolo a prepararli.
Mentre io invece ero pronto, già mi vedevo predicare fra gli infedeli. Perchè a me era stato passato il fuoco. Io ero il santo.
I regali ricevuti dai parenti erano tutti esposti sulla credenza del soggiorno. Un portafotografia d'argento, una penna stilografica e un portamine, un cofanetto con un coltello un cucchiaio e una forchetta con il manico d'argento. Insieme vi erano anche altre cose che nemmeno hanno lasciato memoria.
Ero sicuro di essere avviato verso la strada giusta. Avevo aspettative grandissime da quella iniziazione. Mi si riconosceva che non ero più solo un bambino. Ed era già una grossa conquista. Ero sul cammino corretto.
Il ricevimento con oltre cento persone. Ma si erano limitati ai parenti stretti della mia famiglia e quelli della famiglia di Enza. Un pranzo infinito interrotto ogni tanto da qualche ballo. Duranti i quali le donne si divertivano a far gonfiare le loro ampie e lunghe gonne. E gli uomini ballavano fra di loro.
Per un giorno, intorno agli otto anni, mi sono sentito inserito nella società. E santo, naturalmente. Avevo lavato via la storia della colonia estiva, il sagrestano e qualche marachella. Un ometto fatto e ripulito. Pronto a ricominciare.
Ma sicuramente non a diventare santo.