La gatta più gentile che
ho conosciuto si chiamava Lady. Nome che lei prendeva molto sul
serio. Era uno dei tanti gatti di Franca e Dino. Ma lei si
distingueva dagli altri felini. Aveva un modo tutto suo per tenere
d'occhio la casa. Quando ci sedevamo nel salotto, se ne andava per i
fatti suoi. Tornava non appena capiva che stavamo andando via, e ci
accompagnava fino alla porta e poi usciva per mettersi su un muretto
a osservarci. Mi chiedevo sempre se lo facesse per salutarci o
accertarsi della nostra partenza.
L'alba mancata. Insieme a
Salvo e Angela. Eravamo stati a casa di Dino, forse un capodanno o
un'altra di queste occasioni. Salvo mi dice:
“Vieni a casa mia. Ci
facciamo una cannetta e aspettiamo il sorgere del sole. Dai,
Salvatò.”Non ci si deve sforzare troppo per farmi cadere in
tentazione. Dissi di sì. Continuammo a bere, non ricordo se tequila
o vodka. Ma bevemmo. La canna fu solo la prima di una serie. Si stava
un po' dentro un po' fuori. Poi Angela sparì per rifugiarsi a letto.
Salvo ed io parlavamo del più del meno. Musica, politica, animali,
fumetti, piante grasse. Passammo il tempo così finché non si fece
giorno. Solo allora Salvo si ricordò. Casa sua era vicino ad una
montagna e sole, da lì, non si sarebbe visto prima delle nove.
Il divano letto. Che
divano non era, ma nemmeno un vero letto. Un mobilaccio in faesite
ricoperto con una lamina di finto legno di noce. Un modo per
occultare i letti, travestendoli da libreria. Ho dormito per diversi
anni su uno dei due lettini. Nel sessantotto, dormivo in uno di
questi cosi. Era gennaio. I miei erano andati a trovare mia sorella
in America e non erano ancora tornati. In casa erano rimasti Pino,
mia zia Concetta ed io. Durante la notte, mentre ero a letto, mi
sentii cullare. Pensavo fosse un sogno. Abitavamo a pianterreno. La
scossa durò parecchio. Mia zia si era già alzata e una volta accesa
la luce aveva visto il lampadario che oscillava. Contrariamente a
quanto mi aspettavo, non urlò. Anzi, il suo tono era basso. Disse:
“U terremotu! Chiama a
Pino!”
Lui, Pino, dormiva
profondamente. Ci volle molto per svegliarlo del tutto mentre la zia
Concetta si preparava a portarci fuori. Faticammo parecchio prima di
riuscire a fargli capire cosa stesse succedendo.
“Ah, u terremotu. E un
pozzu ristari a dormiri?”
Trascinarlo fuori dal
letto fu un'impresa. Spintonandolo per farlo uscire di casa mentre
lui avrebbe voluto continuare a dormire.
Il panificio Benigni. Era
il forno più vicino a casa. Parlo del periodo in cui la televisione
in tutto il palazzo l'avevamo solo noi e i Russo. Il signor Russo era
un uomo molto interessante. Viveva con la moglie e due figlie.
Abitavano al primo piano. Un tempo, quando l'unico televisore del
palazzo era quello della famiglia Russo, andavamo da loro per seguire
eventi importanti. Poi la televisione entrò anche in casa nostra, e
toccò a noi invitare qualche vicino a vedere Studio Uno. Di
solito davanti a un caffè. Per per gli adulti, ovviamente.
Tornando a bomba... il
panificio Benigni: era a gestione familiare. Solo la commessa non era
della famiglia. Il pane era solo di farina 00. Il rimacinato non
esisteva. La scelta era fra torcigliato a birra o forte. E poi
mafalda, piziato, parigino... Allora il pane si vendeva a peso, e se
con i pani interi non si raggiungeva quello stabilito, la commessa
aggiungeva quella che veniva chiamata la iunta... l'aggiunta.
Noi compravamo tre chili di pane a sera. Era un pacco enorme, per me
bambino. Spesso la iunta me la facevo dare a parte e la mangiavo per
strada. Ma la cosa più bella era rompere u
cozzu
a un torcigliato dopo aver bucato la carta che avvolgeva il pane.
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