I falsi amici.
Ebbi presto le chiavi di
casa, fra i quindici e i sedici anni. Era un segnale che avevano
fiducia nella mia capacità di gestirle. Ma la vera conquista era
poter uscire la sera. Mi bloccavano i “Dove vai? Con
chi? Che fate? A che ora torni?”.
Le classiche domande dei genitori. Pur di uscire mi inventai degli
amici falsi. Cioè, erano persone reali, ma appena conoscenti,
promosse ad amici di serate passate al bowling. Bowling... dov'ero
stato una volta sola, peraltro di giorno.
“ Esco, vado con dei
compagni di scuola a giocare al Bowling. Non farò tardi.”
Ma lo dicevo dal buio del
corridoio, per nascondere il rossore che mi avvampava sul viso quando
dicevo bugie.
Il calcio. Anche io da
piccolo ho giocato cu palluni. Con alcuni compagni di scuola
ci vedevamo il pomeriggio in una traversa di via Archirafi. Una
piccola strada. Cercavamo dei sassi per delimitare le porte. Poi si
formavano le squadre. Non eravamo undici contro undici. Più spesso
eravamo in tutto sei, qualche volta otto. Stabilire chi doveva
giocare con chi e contro chi non era sempre facile deciderlo. Si
cercava di equilibrare le due squadre. Uno bravo e uno scarso. Alla
pari. Poi c'erano i due malcapitati che dovevano fare i portieri.
Ruolo che nessuno, ma proprio nessuno, nemmeno fra i più scarsi al
gioco, aspirava a coprire. Sudavamo come maiali. Daniele era il più
pacchionello, il più sudato e forse anche il
più imbranato di tutti. Per difendere il territorio - la nostra
strada - da estranei invasori, si organizzò una volta una
pitruliata. La pitruliata era una battaglia combattuta a
distanza, tirandosi pietre. Non c'era un vero corpo a corpo. Qualcuno
ne poteva uscire con un bernoccolo, ma a volte anche con delle ferite
alla testa più o meno profonde. Mi capitò di tornare a casa con un
piccolo squarcio nel cuoio capelluto. Lavai via il sangue e non dissi
nulla a nessuno. In casa non se ne accorsero. Per fortuna era solo un
colpo di striscio. Ma vuoi mettere? Avevamo messo in fuga gli
invasori. Potevamo continuare a giocare nel nostro campo. Ed
io ero un eroe.
Il salotto del professore
Piraino. Boris ed io lo conoscemmo tramite amici comuni. Era un luogo
straordinario, e non solo per l'arredamento e il bellissimo terrazzo.
Lo andavamo a trovare spesso, praticamente tutte le sere. Su un
tavolo di legno grezzo, ci serviva il caffè. Si chiacchierava del
più e del meno, a volte sparlando qualche amico assente. Spesso, il
professore ci mostrava qualche nuovo pezzo della sua collezione di
abiti antichi. Aveva una stanza dedicata a questa sua passione. Vi
erano anche dei manichini. Non antichi quanto i vestiti, ma separati
comunque da poche generazioni. Uno di questi mi faceva impressione.
Indossava un vestito nero merlettato che mi trasmetteva come una
sensazione di morte. Il citofono della casa suonava di continuo.
Arrivavano sempre nuovi amici. Quando non c'era più posto attorno al
lungo tavolo, ci si divideva in gruppi distribuiti nelle varie
stanze. In casa tutte le porte erano aperte, compresa quella della
camera da letto. Rare volte capitò che la stanza fosse chiusa. Il
motivo era uno solo. Qualcuno, per lo più il padrone di casa, la
utilizzava per qualche incontro amoroso. Alle volte tutte le stanze,
tranne quella della collezione, erano occupate da gruppi di amici.
Diventava una specie di pub privato. Un viavai di persone, con
nascite di amicizie e inimicizie, amori o lassatine. Da
una stanza all'altra il contesto cambiava. Chi giocava a carte, chi
ascoltava musica, chi chiacchierava, chi si godeva il fresco nel
terrazzo vicino al profumatissimo gelsomino. Lì ho visto la
caffetteria moka più grande al mondo. Lea, il cane alano con un
carattere che la rendeva più simile al Pluto di Topolino.
E il salotto che tutti
sogniamo.
Almeno io sì.
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