Per
accedere al corso di tecnico di laboratorio all'Istituto d'Igiene
bisogna fare anche un colloquio. La commissione era formata da
diversi docenti e dal direttore dell'istituto. Dopo alcuni
convenevoli. Il direttore mi chiede:
«Che
cos'è il suono?»
«Un'interruzione
del silenzio.»
Mi
guardò meravigliato e sorpreso. Ma non si espresse. Unica
domanda.
Ammesso.
Ci
si sedeva in circolo. Non c'era un programma. Iniziava per prima chi
sentiva l'urgenza di parlare. Gli altri seguivano il filo o
raccontavano altro. Lui, l'analista, alle volte interveniva, altre si
limitava a tirare le somme alla fine della seduta. L'assistente
invece stava sempre muto e non interveniva mai. Alle volte prendeva
appunti. La seduta avveniva in due round il primo di novanta minuti,
e l'altro di trenta con una pausa anch'essa di trenta minuti. Noi lì,
a cercare di sistemare ognuno il proprio puzzle. Passai cinque anni
nel gruppo prima di lasciarlo. Non ho completato l'intero mosaico, ma
riesco ad avere lo stesso una visione d'insieme.
Può
bastare.
Le
catenelle colorate. Quando frequentavo la scuola elementare. Nel
periodo di magra delle figurine di calcio, c'era la raccolta delle
catenelle. Si compravano i singoli anelli della catena e poi si
giocava con gli altri ragazzi. A tre o a cinque anelli. Si segnava la
base dove dovevano arrivare, e poi si lanciava tentando di centrarla.
Davanti alla scuola, la mattina, sostava là una bancarella.
Vendeva caramelle, mele zuccherate, gomma da masticare e cocco a
pezzi. Con trecento catenelle potevi avere un cocco intero. Mai
nessuno, tra quelli che conoscevo, ebbe mai un cocco in cambio delle
catenelle.
Intorno
ai dieci anni andavo a lavorare da Mimmo il barbiere. Io ero quello
che scopava, toglieva la schedina del totocalcio che veniva usata per
raccogliere la saponata dal viso dei clienti, preparava i panni caldi
da applicare dopo il taglio della barba. Allora, per fare lo shampoo
si riscaldava l'acqua in una pentola e poi la si stemperava. Io mi
occupavo anche di questo. Fra i tanti clienti ce n'era uno che quando
lo vedevo arrivare sarei scappato volentieri. In modo scherzoso, mi
chiedeva:
«Me
lo fai vedere. Voglio vedere se lo hai più lungo di quello di
mio nipote.»
E
cercava di tastarmi mentre io facevo di tutto per allontanarmi,
arrossendo per la vergogna e sudando per il disagio. Con mio zio che
lavorava lì e non interveniva. Per tutti era un modo di
scherzare. Per me, ogni volta, una sofferenza. Lui non era un
pedofilo. Gli piacevano i ragazzi questo sì. Io lo scoprii
molti anni più tardi.
Stronzo.
La
noce moscata...
il
sagrestano la portava nella tasca sinistra dei pantaloni. Spesso la
tirava fuori e la strofinava fra le mani. Poi, avvicinandole a coppa
al naso, ne aspirava l'odore. La tasca destra era quella bucata. E
capitava che invitasse qualche ragazzo a infilarvi la mano. No, non
portava le mutande il sagrestano. E odorava ovunque di noce moscata.
Io
lo sapevo.
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