martedì 30 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 13








Quel calore che scioglieva le gambe.
La meraviglia.
La paura.
Quant'era bello!
La confusione.
Il peccato.
Perché dovevo provare quelle sensazioni con il peso di un senso di colpa? Ma poi da dove è uscito? Come ci sono arrivato? Lo dovrò dire al prete? Ma se dio mi ha dato questa gioia, perché chiamarla opera del demonio. Era la prima volta che eiaculavo.

Il primo disco 45 giri comprato. Lo avevo giurato, se ci fosse stato un primo disco, quello non poteva essere che loro. Raccolsi i soldi in attesa della nuova uscita. A Palermo, in corso Vittorio Emanuele, dove alcuni decenni dopo nacque Altroquando, c'era un piccolo negozio di dischi, gestito da una donna di origini spagnole. Lì, proprio lì, decisi di comprare il nuovo 45 giri dei Beatles con We can work it out e Day Tripper.

I falsi amici. Ebbi presto le chiavi di casa. Era un segnale che avevano fiducia nella mia capacità di gestirle. Ma la vera conquista era uscire di casa la sera. Mi bloccavano i “Dove vai? Con chi? Che fate? A che ora torni?”. Insomma, le classiche domande dei genitori. Fra i quindici e i sedici anni. Pur di uscire mi inventai degli amici falsi. Cioè, erano persone reali, ma appena conoscenti, promosse ad amici di serate passate al bowling. Bowling dov'ero stato una volta sola, peraltro di giorno.
“ Esco, vado con dei compagni di scuola a giocare al Bowling. Non farò tardissimo.”
Ma lo dicevo dal buio del corridoi per nascondere alla loro vista il rossore che mi saliva in viso quando dicevo bugie.



Il calcio. Anche io da piccolo ho giocato cu palluni. Con alcuni compagni di scuola ci vedevamo il pomeriggio in una traversa di via Archirafi. Una piccola strada. Cercavamo dei sassi per delimitare le porte. Poi si formavano le squadre. Non eravamo undici contro undici. Più spesso eravamo in tutto sei, qualche volta otto. Stabilire chi doveva giocare con chi e contro chi non era sempre facile deciderlo. Si cercava di equilibrare le due squadre. Uno bravo e uno scarso. Alla pari. Poi c'erano i due malcapitati che dovevano fare i portieri. Ruolo che nessuno, ma proprio nessuno, nemmeno fra i più scarsi al gioco, aspirava a coprire. Sudavamo come maiali. Daniele era il più pacchionello, il più sudato e forse anche il più imbranato di tutti. Per difendere il territorio - la nostra strada - da estranei invasori, si organizzò una volta una pitruliata. La pitruliata era una battaglia combattuta a distanza, tirandosi pietre. Non c'era un vero corpo a corpo. Qualcuno ne poteva uscire con un bernoccolo, ma a volte anche con delle ferite alla testa più o meno profonde. Mi capitò di tornare a casa con un piccolo squarcio nel cuoio capelluto. Lavai via il sangue e non dissi nulla a nessuno. In casa non se ne accorsero. Per fortuna era solo un colpo di striscio. Ma vuoi mettere? Avevamo messo in fuga gli invasori. Potevamo continuare a giocare nel nostro campo. Ed io ero un eroe.


Il salotto del professore Piraino. Boris ed io lo conoscemmo tramite amici comuni. Era un luogo straordinario, e non solo per l'arredamento e il bellissimo terrazzo. Lo andavamo a trovare spesso, praticamente tutte le sere. Su un tavolo di legno grezzo, ci serviva il caffè. Si chiacchierava del più e del meno, a volte sparlando qualche amico assente. Spesso, il professore ci mostrava qualche nuovo pezzo della sua collezione di abiti antichi. Aveva una stanza dedicata a questa sua passione. Vi erano anche dei manichini. Non antichi quanto i vestiti, ma separati comunque da poche generazioni. Uno di questi mi faceva impressione. Indossava un vestito nero merlettato che mi trasmetteva come una sensazione di morte. Il citofono della casa suonava di continuo. Arrivavano sempre nuovi amici. Quando non c'era più posto attorno al lungo tavolo, ci si divideva in gruppi distribuiti nelle varie stanze. In casa tutte le porte erano aperte, compresa quella della camera da letto. Rare volte capitò che la stanza fosse chiusa. Il motivo era uno solo. Qualcuno, per lo più il padrone di casa, la utilizzava per qualche incontro amoroso. Alle volte tutte le stanze, tranne quella della collezione, erano occupate da gruppi di amici. Diventava una specie di pub privato. Un viavai di persone, con nascite di amicizie e inimicizie, amori o lassatine. Da una stanza all'altra il contesto cambiava. Chi giocava a carte, chi ascoltava musica, chi chiacchierava, chi si godeva il fresco nel terrazzo vicino al profumatissimo gelsomino. Lì ho visto la caffetteria moka più grande al mondo. Lea, il cane alano con un carattere che la rendeva più simile al Pluto di Topolino.
E il salotto che tutti sogniamo.
Almeno io sì.

Edificio 17A – Buongiorno




Mi sveglio intorno alle cinque di mattina. Non riesco a riprendere sonno e mi alzo. Vado a cercare un posto dove fumare una sigaretta fuori dal reparto. Al ritorno trovo la porta chiusa. Suono ripetutamente il campanello. Lo prendo a pugni. Ho voglia di spaccare tutto. Cerco di calmarmi. Scendo al piano terra per cercare una macchinetta per il caffè. Nulla. Il portiere di turno dorme rintanato da qualche parte. Vado fuori dell'edificio. Chiedo all'entrata dell'ospedale, alla postazione dove si paga il ticket per il posteggio. Questi, a loro modo efficienti, controllano se qualche macchina all'uscita non paga la sosta. Per il resto non sanno dare informazioni su come rientrare in reparto. Mi dicono di rivolgermi alla postazione KSM, ai vigilanti che controllano tutto l'ospedale. Uno di loro mi fa un cazziatone perché sono fuori dal reparto, qualsiasi cosa dico l'unica risposta che ricevo dal cretino di turno è:
“Lei non è autorizzato ad uscire dal suo reparto. Non può. Quindi torni dentro.”
Sbaglio a definirlo un cretino? Io sono rimasto chiuso fuori e vorrei solo rientrare. Una porta chiusa me lo impedisce, ma i cretini hanno un numero di risposte limitato, perciò mi ripete:
“Lei non è autorizzato ad uscire dal suo reparto. Non può. Quindi torni dentro.”
Un cane randagio passeggia liberamente davanti l'entrata.
Salgo nuovamente al secondo piano. Per fortuna si è fatta l'ora delle pulizie. Grazie a un'inserviente sono finalmente riuscito a rientrare. Sono le sei. Inizia una nuova giornata in questo girone dell'inferno. 

lunedì 29 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 12




I calzoncini corti li ho portati fino alla seconda media. Un compagno di classe, quando salivamo le scale, si metteva dietro di me. Ogni tanto si divertiva a farmi notare i lunghi peli che avevo dietro le cosce. E li tirava, facendomi anche male. Non so come, un giorno decisero di farmi indossare un paio di pantaloni di mio padre. Furono il mio primo pantalone da adulto. Smisi i calzoncini corti. Ero cresciuto, mi dicevo. Il compagno di classe non ebbe più modo di misurare la crescita dei miei peli. Credo che un po' gli dispiacesse.

La pastina con il dado della zia Mariuccia, sposata con mio zio Sarino. Due bambine. Tiravano avanti con il magro stipendio di mio zio. Risparmiavano su tutto. Facevano una vita molto modesta. Spesso per cena faceva la pastina con il dado. Dado che era già un lusso. Ma la felicità e la serenità che si respirava in quella casa l'ho vista raramente. E quella pastina per me diventava un concentrato di sensazioni. Compreso il bacio con lo schiocco che dava mia zia a suo marito, accompagnato sempre dall'espressione: ”Che beddu me maritu”

Il cliente strano. Me lo aveva annunciato l'ex proprietario dell'edicola che avevo comprato. Mi accompagnava nella conoscenza dei suoi ex clienti che sarebbero diventati i miei. Mi indicava le preferenze descrivendoli anche fisicamente. C'erano quelli ai quali mettere da parte tutte le riviste di auto. O di barche. A chi il Sorrisi e Canzoni. E poi due che cercavano fumetti. Uno che lavorava in banca e passava la mattina. L'altro passava con la bici e uno zaino. Anche lui cercava fumetti.
E' strano,” mi disse l'ex edicolante. “Li guarda da tutte le parti. Non sempre prende quello che gli conservo”.
Maurizio: il cliente strano. Cominciò a chiacchierare con me. Stupito che amassi i fumetti quanto lui. Le sue soste diventarono giorno dopo giorno sempre più lunghe. Dopo giorni di ripesamenti, tirò fuori il nome del negozio. Un giorno arrivò deciso e mi disse “Ho il nome: Altroquando.”

La nafta che si infiltrava nei pori di mio padre. Grasso di motore o qualsiasi altra porcheria fosse gli macchiava il dorso delle mani. Mio padre lavorava nell'officina di una ditta di corriere, e la sera tornava a casa con i pori pieni di quella robaccia. Teneva le mani dentro una bacinella con dell'acqua calda. Lasciava ammorbidire per un bel po'. Poi, pazientemente... spremendo, faceva uscire quei vermicelli neri.


Edificio 17A – Welcome


Medicina 2. La sacca della nefrostomia, che ormai sappiamo cos'è, no? E' pienissima. Sono le nove di sera. Chiedo ad un infermiere se può aiutarmi a svuotare la sacca. Mi dice di aspettarlo nella mia stanza. Mi metto al computer e fra una cosa e l'altra passano due ore. Ho finalmente sonno. Ormai sono le undici passate. Mi avvio verso la sala della medicheria. Vedo lo stesso infermiere di prima. Mi ricordo in quell'istante che non ho preso le mie pillole serali. Anche perché loro erano sprovvisti di alcuni farmaci, e avevano preso in consegna i miei. Mentre mi svuota la sacca, chiedo perché la mia terapia serale fosse saltata.
“Lei ha le sue pillole. Sono nella sua stanza. La terapia viene somministrata la sera. Sul registro c'è indicato che le sono state date le pillole alle otto.”
“Guardi che io non ho ricevuto nulla, e nella mia stanza nessuno ha lasciato niente per me.”
“Qui è segnato così.”
“Io sono sicuro di me. Molto meno di voi. Siete pregati di restituirmi le medicine che mi avete sequestrato.”
“Non usi quel termine, non le abbiamo sequestrato nulla.”
“Se mi portate via le medicine, e poi non me le somministrate... per me è un sequestro. Quindi restituitemi quello che mi avete tolto.”
Mi ridanno le scatole, ma ne manca una. Devono cercare un po' prima di trovarla.
“Le restituiamo la sua roba, ma dobbiamo essere noi a dirle come e quando prenderle.”
“Sicuro. Se ve lo ricorderete.”
Non infierisco. Anche se ci sarebbero tutte le ragioni. Alla fine, prendo le pillole e mi metto a letto. Innocente, mi addormento ignorando le nuove avventure che mi stanno aspettando.

domenica 28 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 11






Lo sciopero della fame. Fatto contro una legge sulle droghe. Soprattutto contro l'idea di equiparare consumatore e spacciatore. Lo facemmo in piazza Duomo a Milano, durante il servizio civile. Dormendo in una tenda montata da noi nella piazza. Per tre giorni digiunai dormendo su una brandina. Una volta bastava questo a farci sentire vivi.

Anarchici. Andavamo a tirare pietre al vento in montagna. Poi stanchi ci riposavamo in un rifugio alpino. Bevendo e cantando, insieme a molti presenti, canzoni socialiste e anarchiche. Ritornando un po' brilli dai monti a Pisa. In città invece si sparse la voce che nel gruppo anarchico fosse nata una frazione armata.
Noi non smentivamo nulla. Preferivamo lasciarli alle loro fantasie.

Tobia. Il cane che viveva con il cappellano del carcere minorile di Milano. Tobia era un barboncino, ma di taglia insolita. In continua ricerca di cibo e di gambe sulle quali sfogare il suo istinto sessuale. Un cane buonissimo per il resto. Amava giocare fuori dal carcere in mezzo all'erbaccia. Alcuni ragazzi ospiti una sera hanno voluto provare. Gli hanno voluto far inalare il fumo di una canna. Per vedere l'effetto su Tobia. Per vederlo poi semplicemente barcollare leggermente. Mettersi nella propria cuccia e guardarci con gli occhi a pampinedda.

L'ago e il filo li presi dalla scatola dove erano conservati i materiali per cucire. Avevo sei, forse otto anni. Preparavo un vestitino per una piccola bambolina. Avevo trovato la stoffa, mi serviva l'ago e il cotone. Scelsi il colore del filo. Quello che più si avvcinava a quello del pezzo di stoffa del vestitino. Mi sarebbero serviti anche dei bottoni automatici, ma non li trovai. Presi l'unico ago nella scatola e mi misi a sedere sulle scale del piano di sotto. Mentre ero sul più bello del gioco, mia zia Concetta cominciò a chiamarmi. Aveva una voce dal tono acuto. Spesso esaggerava e urlava in modo tale che diventava una sirena. Non si capiva quello che diceva. Si sentiva un urlo che cercava di modulare delle parola. Visto che i vari urli non suscitavano alcuna mia risposta, mi minacciò di tirarmi il bastone con il quale passava lo straccio. La minaccia si trasformò presto in promessa e poi in atto reale. Al pronto soccorso mi diedero dei punti in testa. Io avevo ragione, lei torto. Volli allora sfidare il primo dolore. Mi ripromisi di sopportarlo in silenzio. Durante la cucitura dei tre punti in testa. 

Edificio 17A – Competenze



Da un momento all'altro. Senza nessun preavviso, mi viene annunciato il trasferimento in un altro reparto. Medicina due. Mi rimproverano pure perché non ero in stanza quando mi hanno cercato.
Abbiamo dovuto rimandare indietro l'ambulanza, perché non la trovavamo. Lei non può allontanarsi così dalla sua stanza.”
Cerco di sdrammatizzare. Non serve, l'arroganza non accetta altro che se stessa. Penso che avrei dovuto essere avvertito per tempo. Dovevo preparare il mio piccolo trasloco. In ospedale si accumulano tante piccole cose. Indumenti, scarpe, varie medicine, il computer, sacchetti per la colostomia e tutto ciò che mi serve per gestirla. L'elenco naturalmente è molto più lungo. Conclusione: un borsone piuttosto pesante, tre sacchetti di plastica strapieni, la valigetta per il computer. Dico che da solo non riesco a trasportare tutto e che avrei bisogno di aiuto.
Non è nostro compito.”
Sbarro gli occhi incredulo.
“L'accompagno io” mi dice un'altra infermiera
Arriviamo giù, dove ci aspetta la navetta che mi deve trasportare a Seconda Medicina. L'infermiera chiede all'autista di aiutarmi:
“Lei che è un uomo lo aiuti”
“Io faccio l'autista, non è compito mio.”
Rivolgendomi all'infermiera dopo averla ringraziata le dico:
“Guardi, io sono un po' più uomo... porto tutto io.”
Mi carico come un asino da soma. Porto tutte le mie cose fino alla navetta.
Non mi hanno nemmeno dato la cartella clinica. Come se volessero sbarazzarsi di me. Come un pacco da spedire urgentemente a destinazione. Quasi non fossi una persona. Un ingombro, una cosa. Di sicuro non una persona, tra l'altro nemmeno al meglio delle proprie forze.
Arrivo nel nuovo reparto stanco morto. Non capisco se sia più la rabbia o la stanchezza a farmi tremare in quel modo. Di sicuro non è febbre.


sabato 27 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 10





Mia madre che cantava. Mi piaceva sentirla. Lo faceva spesso mentre si dedicava alle pulizie di casa. Erano sempre canzoni d'amore. Fra “Libero” e “Romantica”, canzoni di un secolo fa. Lei sicuramente avrebbe scelto “Romantica”. Cantava andando spesso in falsetto. Qualche volta stonava. Non si scoraggiava per questo. Alle volte interrompeva il suo canto per urlarci un rimprovero. Amavo sentirla cantare. Cantare. Alleggerisce l'anima durante una fatica.

Le domeniche pomeriggio degli anni cinquanta. Quando mio padre e zù Petru uscivano per ritornare carichi di scaccio. Un insieme di semi di zucca tostati e salati, noccioline americane, ceci tostati, castagne secche. Si aprivano i coppi con i diversi contenuti sul tavolo da pranzo. Stavamo intorno al tavolo a mangiare lo scaccio. Come combattevamo poi la sete? Non esisteva ancora da noi l'uso della coca-cola. Quando andava bene, mezzo bicchiere di gazzosa. O semplicemente acqua.

Il primo viaggio a Roma. Primi anni sessanta. Big era una rivista per giovani. Non ridete parliamo di cinquant'anni fa. Leggevo sia Big che la rivista concorrente Ciao amici, ma ero più affezionato alla prima che aveva lo stesso editore di Men, altra rivista che compravo allora. Big organizzò un incontro con i lettori a Roma. Con serata al Piper e un incontro concerto con Equipe 84 e Rokers. Durata del tutto un fine settimana. La cifrà non era altissima e riusci a convincere mio padre.
Anche se con un anno di ritardo, frequentavo la terza media. Sostenni gli esami di riparazione e una volta promosso partii felicissimo verso i miti giovanili.

Il sogno rivelatore. Sognai una testa di bambola, con i capelli a ciuffetti di certe bambole. Umidicci ma non attaccati fra loro. Io sull'orlo di un burrone. Pronto a fare un passo in avanti. Sotto consiglio di una psicologa chiesi timidamente a mio padre se fosse successo qualcosa di particolare durante la mia nascita. Mi disse che mia madre quando sono nato ha subito degli strappi. Cercai di immaginare il dolore che dovette provare. Da allora una cicatrice è stata impressa nella mia anima.

Zoe. Arrivava in negozio sempre imbronciata. Magari fino ad un minuto prima cantava insieme a Rita, la mamma. Appena entrava in negozio si rimpiccioliva dentro la sua carrozzina e metteva il broncio. Io iniziavo a provocarla in tutti i modi. Forse era questo che lei si aspettava. Io davanti a questa piccola peste a fare il cretino. Piano piano spuntava il sorriso che non poteva più trattenere. Usciva dalla sua torre d'avorio e aveva inizio il gioco. O davanti al computer a cantare Il Caffè della Peppina, o a chiederci che verso facesse il coccodrillo. Alle volte, invece, si giocava a rincorrerci correndo entrambi gattoni gattoni. Io a cinquantasei anni contro una Zoe di appena due anni. 

Edificio 17A - Filippo, portami...



Dei fazzolettini di carta. Ne ho pochi e ogni tanto mi servono.
Sapone da bagno liquido. Perché ho cercato in ogni bagno del reparto e sono del tutto sprovvisti di sapone. In barba alla prima regola dell'igiene: Lavarsi spesso le mani.
Il volume di poesie della Szymborska. Mi manca moltissimo.
Le due spugne che adopero per lavarmi a casa.
Dei bicchieri di plastica. Per darmi le gocce di Diazapam, l'infermiere ne ha preso uno dalla scorta di un altro paziente.
Il libretto di Gongyo. Potrei farcela lo stesso, ma se ce l'ho è meglio.
Delle monete. Perché senza non posso accedere all'acqua del distributore automatico, e in reparto non te ne danno se sei stato ricoverato dopo la distribuzione mattutina.
I fazzolettini per la colostomia. Sono utili dopo il lavaggio dello stoma.
La pomata disinfettante da passare attorno allo stoma.
Tu e tutto il tuo carico d'amore. Scritto per ultimo, perché ti resti bene in mente. Spesso le ultime cose dette rimangono più impresse.

venerdì 26 aprile 2013

Edificio 17 Cose che ricordo del passato 9







I Ching. Non chiedetemi come si pronunci. Li ho sentiti chiamare... i cing, ai cing, i king, ai king o ai kaing. Insomma, non lo so, ma credo sia chiaro di che parlo. Avevo un bel volume con la copertina rigida e rossa con scritte in oro. Al volume erano allegate tre monetine che servivano ad aiutarti a scegliere la sentenza. Lo usai per un certo periodo. Poi convenni con Philip Dick che non ne valeva la pena, perché nei momenti cruciali ti abbandonava. Lui ci scrisse un romanzo. Il mio volume de I Ching lo regalai.

Il manifesto con l'uomo incinto, appeso da Luciano Massimo Consoli a una finestra della casa del suo compagno. La casa era a piano terra. La finestra enorme. Il manifesto era esposto verso l'esterno. Ne occupava una piccola parte. Il senso del manifesto era che se fosse stato l'uomo a restare incinto, l'aborto sarebbe già stato legalizzato. L'intera finestra, durante la notte, fu dipinta di nero da anonimi pittori. In un paesino a pochi chilometri da Amsterdam. Il manifesto era del PSP, partito socialista pacifista. Erano gli anni settanta.

In macchina con Angela e Francesca, due mie amiche. Metà anni ottanta. Tratto di autostrada Palermo-Cefalù. Dove abbandonando l'impegno musicale politico, ci lasciammo andare e ascoltammo una musicassetta di canzoni di De Gregori. All'attacco de “La donna cannone” partimmo a cantarla tutti e tre. Cantandola insieme e correggendoci a vicenda, commuovendoci.

Il pane e cipolla mangiati ad Amsterdam a casa di Carlo, intorno alle quattro di notte. Dopo aver passato il tempo girando per pub e bar. Bevendo e facendo amicizie nuove. Carlo era un poliglotta. Conosceva e parlava, oltre l'italiano, olandese, inglese, francese e tedesco. Ma anche un po' di spagnolo. Quindi per lui era più facile fare nuove conoscenze. Si stava in un posto. Se non c'era nessuno che ci interessava, si beveva qualcosa velocemente e si andava altrove. Alla fine del giro si tornava spesso a casa per come eravamo usciti, solo più brilli. E arrivati a casa ci mettevamo a tavola e non era raro che mangiassimo pane, cipolle e sale.

Edificio 17A - Cantare



Ritorno a Tori Amos. Mi dispiace, in fondo, perché poi, ascoltandola a casa le resta addosso un piccolo tanfo di ospedale. I ricordi si legano fra loro e poi l'uno non si stacca più dall'altro. Ancora ricoverato. Che faccio? Do un'occhiata a Facebook.Rispondo ad alcune mail. Ora mancano sei minuti a mezza notte. Che faccio per passare il tempo? Metto le cuffiette e faccio partire “Under the pink” un album di Tori amos. Le ascolto tutte mentre scrivo. Ma il terzo brano ha su di me lo stesso effetto che “La vecchia fattoria” aveva qualche anno fa sulla piccola Zoe. Non posso fare a meno di cantarla. Sottovoce, un po' per non disturbare gli altri pazienti, un po' per vergogna.
Non è che la mia voce sia tra le migliori, almeno per chi mi ascolta. Ma giuro, canto con tutto il cuore. E cantare, come ballare, non importa come lo fai. L'anima trova sempre una via d'uscita per lei agevole.


giovedì 25 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 8




L'idiota che mi perseguitò per mesi. All'inizio cercai di spiegargli, ma non voleva sentire ragioni. Lo incontravo la Domenica, durante la mia solita passeggiata. Un giorno decisi che era inutile parlargli. Lui aveva un chiodo fisso. La sua tesi era inconfutabile: a suo parere, io lo amavo, ma avevo troppa paura per ammetterlo. Lo allontanai. Qualche anno dopo tornò alla carica. Prima con lettere e disegni inquietanti, poi con sms a pioggia, da vero stalker. Alla fine cambiai il numero del mio cellulare.

Roma. Dove nei vari soggiorni, da solo, mi orientavo a naso. Spesso non sapevo nemmeno i nomi delle strade. Abitai per un breve periodo in una stradina vicino Piazza Navona, insieme a Luciano Massimo Consoli. Un minuscolo appartamento. Magnifico il pasticcere che aveva la sua bottega proprio sotto casa nostra. Non ricordo il nome della torta. Era a base di castagne. Purea di castagne, panna e pezzi di marron glassè. Ti faceva salire oltre il settimo cielo.

Insieme a Kurtz e Alessandra, in macchina. Senza voglia di andare a casa. Si stava bene insieme. Sì, avevamo bevuto, ma non tantissimo. Dovevamo decidere fra due giochi. Se andare in giro con la macchina svoltando sempre dallo stesso lato, il sinistro o il destro. Oppure scegliere una macchina e seguirla ovunque ci portasse. Cretini, se si può dire, coscienti e felici. Non si interrompe un'emozione.

La pioggia. Mi piace e ho la sensazione che mi alleggerisca. Porta via lo sporco. Ho sempre il desiderio di camminare sotto la pioggia. Qualche volta l'ho fatto. L'ultima alla fine degli anni ottanta. Il secolo scorso. Uscito da un cinema cominciò a piovere. Non pioggerellina da Singing in the Rain. Pioggia abbastanza sostenuta. Pioveva e io camminavo felice di essere bagnato. Nelle vie traverse il venticello mi faceva un po' gelare. Ma ero felice. Inzuppato d'acqua fino alle mutande. Noncurante, continuai a camminare fino a casa con addosso un'incredibile sensazione di libertà.

Edificio 17A - Acqua





Non distinguo ancora, dopo tutta l'esperienza ospedaliera, i vari ruoli professionali. Gli OSS (Operatori Socio Sanitari) sì, portano una divisa bordò. Però continuo a confondere medici e infermieri. Dovrebbe essere semplice, i primi divisa verde, i secondi blu. Però spesso tutti indossano un giubbottino blu. Indistintamente. E la confusione aumenta. Credo che la signora con la quale ho fatto il mio primo tentativo di accattonaggio fosse un medico. Non avendo più acqua le ho chiesto se mi dava un euro. Mi dice che deve scendere al terzo piano per vedere se trova la monetina. Vedendola indaffarata le chiedo se appena finisce mi può chiamare e scendiamo insieme. Non vedendola arrivare e avendo le labbra secche. Comincio a chiedere ad altre persone. L'accatonaggio è così. Provi una volta e poi ti viene più semplice. L'infermiere Vito mi dà cinque euro. Ma le macchinette accettano solo monete. Né c'è dove cambiarli. Allora comincio a chiedere a tutti quelli che si avvicinano al distributore di bevenda se hanno da cambiare i cinque euro. Niente. Una ragazza si offre di darmi cinquanta centesimi per l'acqua. Non vuole nemmeno i dieci centisimi di resto. Mi metto a chiaccherare con un altro ricoverato mentre fumo una sigaretta. Fra una chiacchera e l'altra bevo più della metà della bottiglietta. Devo affrontare la notte con un quarto di litro d'acqua. Riprendo allora a chiedere se qualcuno mi può cambiare cinque euro. Un infermiere di un'altro reparto mi offre una bottiglietta:
“L'acqua non si nega a nessuno” mi dice.
Giusto. Solo che se una persona viene ricoverata di pomeriggio salta la distribuzione dell'acqua. E... no, in reparto non se ne trova.

mercoledì 24 aprile 2013

Edificio E17A - Cose che ricordo del passato 7




I festeggiamenti per i cinquant'anni del mio amico Angelo, residente a Bologna. Ci invitò alla festa contemplando nell'invito anche il soggiorno nell'albergo del Circolo Ufficiali. Io e Filippo eravamo divertiti dalla festa che comprendeva, tra i vari momenti, anche l'arrivo a sorpresa di un amico cubano da tempo assente dalla città. Il poveretto si prestò di buon grado a quell'ingresso teatrale, ma dovette passare buona parte della serata fuori tremando di freddo.

Il prete che mi corteggiò per tutta la sera, in un albergo di Milazzo. Lui lavorava per un importante giornale del Vaticano. Giusto per non fare nomi... Civiltà Cattolica. Durante la cena, indifferente alla presenza di tanti miei amici, mi corteggiava e allungava la sua gamba verso di me. Vero è che l'albergo Rosa era frequentato quasi esclusivamente da omosessuali. Ma lui fu sfacciatissimo. Mi propose ufficialmente un bagno in mare intorno a mezza notte. Perché i preti e la verità non sono compatibili? Il bagno in mare servì solo per sciacquarci con l'acqua salata.

Scrivevo usando una macchina per scrivere. Una rossa Valentina della Olivetti. Comodo strumento per me che ho una calligrafia illeggibile. La usavo spesso per scribacchiare o per rispondere alle lettere dei miei genitori o di qualche amico. Non ricordo cosa stessi scrivendo. Ricordo il movimento della tendina vicino alla finestra. Poi da lassù spuntò un topolino. Il terrore mi immobilizzò davanti alla rossa Valentina. Non riuscivo a muovermi per niente, mentre lui si faceva una passeggiata lungo lo stucco di gesso. Andata e ritorno. Poi di nuovo la tendina fu scossa come da un venticello. Infine sparì, lasciandomi nel panico e facendomi passare una notte insonne.

Una mattinata con le mie nipoti, Valeria e Marianna. Loro così piccole, con me a villa Giulia. Io le fotografavo. Loro, due pazze felici di potersi scatenate in lungo e largo per la villa. Con loro mi sono divertito. Forse più di loro.

Non potevamo perderlo. Allora abbiamo saltato la scuola. Ci sentivamo quasi banditi. Non andare a scuola l'ultimo anno di terza media. Ma come facevamo a perderci il film. Dopo tanto tempo finalmente lo avevano distribuito. E noi avevamo l'occasione di vederlo. “Help” dei Beatles. Noi lo abbiamo visto.


Men”. Nel 67-68 compravo questa rivista per soli uomini. Sì, quella dove in copertina c'era sempre una ragazze con le tette di fuori, quasi sempre di dimensioni fuori dal comune. Stampato in bianco e nero su carta scadente, con la parte destra della pagina seghettata. Di tutta la rivista, mi piacevano le pagine con l'editoriale e le lettere al direttore. L'altra era una rubrica di posta tenuta da Jo Stajano, dedicata espressamente a lettere di omosessuali. Le altre pagine erano inutili. Fu da questo giornale che nacque l'incontro con Luciano Massimo Consoli.


Il maggiolino verde di Boris. La macchina che possedeva quando lo conobbi. Le altre non le ricordo. Sarà perché con il maggiolino non gli vidi fare mai quello che fece con altre auto. Boris quando era in difficoltà non accettava né consigli né tanto meno critiche. Come dirgli di non fare un sorpasso in una curva cieca mentre stava per farlo? Non gli dissi nulla. Quando vidi che dalla parte opposta stava arrivando un camion, chiusi gli occhi e puntai i piedi.

Edificio 17A - Pronto Soccorso



Quando tutto sembra andare verso un nuovo tipo di normalità... ecco l'imprevisto. La nefrostomia (il drenaggio del rene) fa sentire che qualcosa non va. Un po' riluttante, chiamo mio fratello. Non vorrei disturbarlo. Gli dico:
“Domani mi accompagni in ospedale? Ci sono problemi con la nefrostomia.”
“Quando vuoi , mi chiami e andiamo.”
Non è stato “domani”. Intorno alle 21 ho dovuto richiamarlo. I brividi non mi lasciavano, avevo la febbre alta. Tremavo come una foglia. Andiamo nel reparto dove ero stato ricoverato: nell'Edificio 17A. Mi fanno una medicazione. Sembra ci sia una leggera ostruzione nel tubo di drenaggio. Mi fanno un lavaggio con soluzione fisiologica. L'ostruzione viene eliminata. Ma ripetono più volte che loro non possono fare di più, devo presentarmi al Pronto Soccorso.
Non ricordo granchè della notte passata nel Pronto Soccorso. Un infermiere rotondetto, molto gentile, che si occupava di me. Filippo e Pino che si alternavano sull'unica sedia a disposizione nella stanza. Io che confondo le loro mani mentre le stringo. Con le labbra screpolate e la lingua di cartone faccio fatica a farmi capire. Devo ripetere più volte le parole. Anche solo dire per chiedere acqua. Il delirio dovuto continua fino alle prime luci dell'alba, quando finalmente la febbre scende sotto trentotto.
Allora comincio ad accarezzare l'idea di alzarmi da letto. Con molta difficoltà, ma alla fine ci riesco. Faccio quattro passi nel corridoio. Cerco di fumarmi una sigaretta, un infermiere dagli occhi azzurri, mi dice che non si può, nemmeno affacciato alla finestra. Guardo i suo occhi azzurri. Do l'ultimo tiro e poi spengo la sigaretta.
Alle tre di pomeriggio del giorno dopo, non so ancora dove mi trasferiranno. Annunciano l'arrivo di una visita medica che dovrà decidere dove mi sbatteranno.
Ovunque, credo, sarà meglio del Pronto Soccorso.

martedì 23 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 6




I Talking Heads a Palermo. Non potevo mancare. Insieme a Dino, Franca e altri amici, eravamo felicissimi di aver trovato i biglietti. Il concerto era allo stadio della Favorita, come si chiamava allora. Ci siamo ritrovati come animali in gabbia tra una selva di transenne, il palco quasi al centro del campo da calcio. Una separazione rigorosa tra noi pubblico e il gruppo in concerto. Gli stessi Talking Heads sembravano patire la distanza. Un concerto rovinato da un eccesso di misure di sicurezza.
Cazzoni.

Il mio maestro della scuola elementare. Ne ho avuto anche un altro. Quello che con un colpo di bacchetta mi procurò una ferita alla testa. Per me, il mio maestro era - non vorrei sbagliare il nome - Romeo. Robusto, faccia tonda. Capelli pettinati all'indietro. Unti con la brillantina. Come tutti i maestri, indossava giacca e cravatta. Era un tipo buono e comprensivo. Con lui amavo studiare. Con l'altro diventai cattivo.

Il bacio più eccitante. Dato nella sala centrale del Banco di Sicilia. Davanti a tutti, lui fece un gioco di prestigio. Per cominciare mi baciò sulle guance. Nel passaggio da una guancia all'altra passò velocemente dalla mia bocca.

Stavo iniziando una relazione con W. Lui (per il solo fatto di aver scritto questa lettera puntata, s'incazzerebbe) aveva un comportamento strano e un po' ossessivo. La voleva sempre vinta, altrimenti si sentiva male o addirittura perdeva i sensi. Io lo sapevo che recitava. Per questo la soddisfazione fu maggiore quando lo schiaffeggiai dopo uno dei tanti svenimenti. Due schiaffi ben assestati. I primi e gli ultimi che ho dato.

Il buco di Ostia. Una spiaggia frequentata prevalentemente da gay e nudisti. Metà anni ottanta. Per la prima volta in spiaggia non usai il costume. E non era male.

Lei, femminista della prima ora. Usava il suo seno per sbatterlo sotto il naso a tutti quelli a cui voleva chiedere qualcosa. Volle gestire una libreria alternativa, impegnandosi il meno possibile. Portò la libreria al fallimento, giustificando le sue mancanze con la scusa di doversi prendere cura della sorella disabile, peraltro sempre sola e – per sua fortuna - autosufficiente. Scappò fregando soldi a tutti quelli che aveva conosciuto. Padrona di casa, proprietario del negozio, distributori. Senza scartare tutti quelli che le avevano dato fiducia. Anche me.
Credevo fosse una compagna. Invece era solo una troia.

Edificio 17A - La seconda è meglio




La seconda volta è andata meglio. Ho preso tutte le sacche giuste portandole in bagno. Ho preparato il tritato con il pomodoro. Non eravamo più novizi. Sapevamo già come dividerci le parti del corpo da lavare e come. Abbiamo messo su l'acqua per la pasta. Questa volta Filippo è a torso nudo. Mi pulisce la schiena e le cosce. Alla fine: montaggio dei vari sacchetti. Abbiamo dovuto spegnere il fuoco sotto la pentola. L'acqua bolliva inutilmente. Il sacchetto per la nefrostomia è seccante da “installare”, ma Filippo diventa sempre più veloce e bravo. Riaccendo sotto la pentola. Il tempo di rivestirmi e l'acqua bolle. Butto giù gli spaghetti. Cedo i comandi a lui. Sì, questa seconda volta è andata molto meglio. Gli spaghetti non erano da meno. Mentre li mangiamo, in tv facciamo partire un episodio di “Modern Family”. Il nostro nuovo pranzo domenicale.


lunedì 22 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 5


L'inutile pistola giocattolo regalatami da piccolo per la festa dei morti. Non mi piaceva. Non ricordo quale dono avrei preferito. Affacciato al balcone, sparavo ai passanti. La cosa non mi divertiva e mi dava fastidio pure il rumore che produceva.

Lido. Un omone robusto. Lavoravamo nello stesso ristorante. Facevamo speso a pugni. Una volta l'uno, una volta l'altro, iniziava una provocazione che finiva spesso in una scazzottata. Ma era tutta una scena, nel senso che non litigavamo realmente. I pugni sì, quelli erano veri. Era un modo per giocare. Io per avere un contatto fisico con lui. Perché lo facesse lui non l'ho mai capito.

In un negozio di dischi usati, ad Amsterdam, scambiai le copertine di due dischi. Quello di Yoko Ono costava meno dell'album di John Lennon. Così pagai John Lennon al prezzo di Yoko Ono.

Il Pasto Nudo” di William Burroughs, passatomi dalle mani agli inizi degli anni settanta. Non sono mai riuscito a finirlo. Però ogni volta che lo riprendo in mano riesco a leggere più pagine della volta precedente. Facile vedere il film di Cronenberg. Leggere il romanzo è un po' diverso.

L'estinzione del dolore. Trasformato in una gioia incontenibile. Quasi da stare male. Felice. In ginocchio. Abbracciandomi e piegandomi. In sintonia con l'universo. Non dico minchiate, tutto vero. Ero troppo felice. Mi rasserenò in una notte buia.

Dopo la separazione da Luciano, non ruscivo a entrare da solo in un bar. Mi vergognavo, e mi sembrava fuori luogo. Ho impiegato mesi prima di riuscire a entrare e ordinare un semplice caffè.

La bicicletta... mai avuto da piccolo. Cosa che mi sarebbe tanto piaciuta. Che poi da grande mi vergognavo a imparare. Su di una vecchia bici di mio fratello passavo le domeniche a fare il vialetto della casa di campagna di Boris. Un alienato che andava avanti e indietro. Su e giù per quel breve vialetto, sognando di arrivare in paese in bici. Ma tutto finì lì.

La volpe. Giustamente diffidente, che accettava il cibo che le offrivo, ma solo quando mi ero allontanato. Dovevamo mantenere le distanze. Ogni tanto mi guardava. Non era ostile, la volpe. Quasi curiosa. Mi sentivo onorato del suo sguardo.

Edificio 17A - Io e l'Italia



Notte insonne. Mi connetto a Facebook. Rispondo ai messaggi. Ho nuovi amici. Ci raccontiamo storie belle, ma anche dolori. Chi ha sogni realizzati, chi li insegue da una vita. Penso al mio Macciupicciu ormai troppo alto, non ce la potrei mai fare. Bevo in continuazione. Dal succo di frutta, al latte, a semplice acqua. Scrivo qualcosa. Provo a mettermi a letto. Filippo già dorme da un pezzo. Dopo poco devo alzarmi per il fastidio lungo le gambe. Cammino un po' per casa. Riaccendo il computer. Attraverso le cuffiette ascolto Mozart, che mi rilassa. Prendo l'alprazolam, sperando mi induca il sonno. La connessione a Internet funziona a momenti. Guardo lo schermo come ai tempi del Commodore 64. Stessi tempi interminabili passati a fissare uno schermo che non fa nulla. Mischio latte e succo di frutti rossi (così recita la scritta sul brik). Lo bevo direttamente dalla bottiglia del latte dove avevo preparata la miscela. Tento di resistere, ma poi scatta in automatico il gesto e mi accendo una sigaretta. I dolori persistono. Ho provato più volte a dormire, ma dopo poco ero costretto ad alzarmi dal letto. Prendo una tachipirina. Ripeto i gesti di quando torno dal letto. Accendo il computer. Cerco qualcosa di dolce in cucina. Sfogline di cioccolato all'arancia donatemi dalla carissima Sandra. Tre sfogline ed un bicchiere di latte. Sublime. Do al dolore il sapore di cioccolato all'arancia. Lo diluisco. Lo confondo e lascio prevalere quel gusto di amaro e piacevole del cioccolato. Entrambi i gatti sembrano straniti dal mio comportamento. Vorrei dormire, ma non posso. Scrivo e alle volte mi balla tutto davanti agli occhi. Digito con molta più lentezza del solito. Poi mi fermo a riflettere. Alle cinque del mattino prima di crollare e addormentarmi.
Non mi lamento. Da quel poco di notizie che riesco a ricevere dall'esterno non è che questo paese se la stia passando meglio di me. Potrei dire che io, lentamente, con enormi sforzi alle volte, voglio e riesco ancora a camminare.

domenica 21 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 4


L'abbandono. Avevo circa sei o sette anni, insieme a un cugino della stessa età. Eravamo a Mondello. Uno scherzo dei nostri genitori per vedere la nostra reazione. Io inizia a chiedere alle poche persone che passavano informazioni su come arriva in corso dei Mille. Casa nostra. Poi, gli adulti si ripresentarono tutti sorridenti. Ero incazzato come una belva.


L'unica foto dove sono nudo risale agli inizi degli anni settanta. Ero con il mio amico Carlo in un ristorante di Amsterdam. Un fotografo ci chiese di fotografarci. Non so come Carlo ci fosse riuscito, ma lo convinse a venire con noi a casa. Lì, prima uno poi l'altro, ci siamo fatti fotografare senza niente addosso. Le foto non erano belle.


Il primo bacio. E' stato bellissimo. Certo il posto non era dei più romantici, ma chi può decidere quando questo avverrà per poterlo programmare? A me capitò in posto un po' squallido: un gabinetto di un cinema a Pisa. Eravamo in pieno sessantotto.

Umberto Tiboni è stata una persona importante per me. Lo andavo a trovare durante i momenti liberi dal servizio civile. Mi piaceva stare fra libri e riviste che lui distribuiva. Gli feci un lungo corteggiamento. La prima volta lo facemmo nei locali della distribuzione. Per terra sopra dei cartoni.


Da piccolo mi ero invaghito di un vicino di casa. Piccolo quanto? Intorno ai dieci anni. Sì, molto precoce. Non so cosa avrei fatto per lui. Forse non capivo bene cosa volessi. Ma ero attratto da lui come un matto.


Mia nonna Barbara. Portava in casa una specie grembiule con due tasche. Riusciva a stupirmi sempre con tutto ciò che tirava fuori dalle tasche. Un borsellino. Fogli di carta dove scriveva i numeri da giocare al lotto. Forcine, ma anche biscotti o pane. Un pezzo di matita. Bottoni tutti diversi. Confetti. Un fazzoletto. L'elenco, naturalmente, non è completo.


Negli ottanta lavoravo presso un laboratorio di analisi cliniche. Conobbi un medico. Si fece amicizia. Una sera avevamo deciso di andare al cinema. Invece finì che passeggiammo chiacchierando tutta la sera. Quando gli dissi di essere omosessuale, ci rimasi male non appena lui rispose: “L'avevo capito”.


Mi hai rovinato la serata”. Lui, Sandro, aveva fatto da disc jokey per tutto il tempo, in casa di Dino. Naturalmente bevendo oltre ogni limite. Quando arrivai,era gia cotto. Io lo presi in braccio. Lui vomito tutto. Anima compresa. Allora raccolsi quel che era rimasto di lui e lo misi a letto. Si addormentò quasi subito, biascicando qualcosa di incomprensibile. Il giorno dopo, quando ci parlammo, partì il suo rimprovero. Avrebbe voluto continuare la serata. Non dormire.

Edificio 17A - Dire

Sì, ci sono cose che sono difficili da raccontare. E' già dura viverle in privato, figuriamoci condividerle con il mondo esterno. Cose che devi raccontarti a te stesso più volte per digerirle. O allontanarle, fare come se non fossero accadute. Si dice che debbano essere... elaborate. Una parte di noi stessi ripete che no... non è possibile accettarle. Non si possono raccontare. L'altra parte usa il cuore e il tempo per sanare la ferita. Infine posso parlarne. Ci ho messo giorni. Adesso sono pronto a raccontarvelo. E dettagliatamente. Compresi i momenti di imbarazzo e avvilimento. Le lacrime di vergogna. Non tralascerei nulla di nulla. Come abbia reagito davanti a Filippo e dopo a Pino. Come loro mi hanno risposto. Come abbiamo dovuto risistemare il letto. Tutto. Solo vorrei chiedervi non fate di me “IL piscialetto”.

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 3

Quella povera anatra alla quale mi avevano detto di tagliarle la testa. Lavoravo in un ristorante vicino Pisa. Ho alzato il braccio destro con in mano un coltellaccio. Con la sinistra tenevo fermo la testa. Il braccio destro prende una bella rincorsa, a metà rallenta. Risultato la meschina si mise a correre con il collo piegato. Indimenticabile. Orrore puro.


Per due volte partecipare alla nascita di gruppi di omosessuali. Il Fuori e Articolo Tre. Abbiamo sicuramente contribuito non ad ottenere diritti. Ma a cambiare la mentalità comune con il solo mostrarci per quello che siamo senza nascondersi e orgogliosi di essere quello che si è.


Sudare per l'imbarazzo. Mi succedeva spesso. Diciamo che tutte le volte che mi avevano beccato con le mani nella marmellata. Se qualcuno accennava la cosa davanti a delle persone che non sapevano. Io iniziavo a sentirmi osservato e sudavo. Come una fontana. Alle volte andavo in bagno e facevo scorrere l'acqua fredda sui polsi. Ma non funzionava molto. Poi ho smesso perché se rubo la marmellata lo dico. Naturalmente marmellata è una metafora.




Una lite con Filippo. Mentre eravamo a Roma. Piccole incomprensioni di una coppia in formazione.
Con belle riappacificazioni.




Lo scoprire ad Amsterdam in una sauna gay di avere qualcosa nelle cosce. Ero in bagno. Mi tolgo quello che pensavo fosse una crosticina. Solo che la crosticina si muoveva. E non ne avevo una sola, ero pieno. La difficoltà maggiore fu spiegare al farmacista con il mio povero inglese cosa volessi. Gli dissi che avevo piccoli animali sul corpo. Mi diede il prodotto giusto. Poi scoprii che si chiamavano piattole.




Il mio primo vero hot-dog nel mio unico breve soggiorno a Londra. Alle due di notte persi nella città. Alla ricerca di un autobus che ci portasse a casa. Vedo, come un'oasi, una bancarella e un uomo che preparava hot-dog. Ricchi di cipolla cotta sulla piastra. Una vera delizia, mi sembrò quella sera.




Il cinema Olimpia di Roma. Chi non c'è mai stato non può capire. Proiettavano sempre film d'autore. Con rassegne dedicate ai registi o attori famosi. Utilizzato come luogo di incontro. Ma spesso si consumava sul posto. Descrizione più casta non saprei dare.


Il prete che per telefono mi dice che sono posseduto dal demonio. Incazzato perchè lo minacciavo di denunciarlo al garante della privacy. Che non sapeva nemmeno cosa fosse. Tutto perchè avevo fatto la domando per lo sbattezzo e lui non mi rispondeva. Ha dovuto alla fine rispondermi. Sono perciò pure scomunicato.

sabato 20 aprile 2013

Edificio 17A - Si... può... fare!


Si può fare. Andare a cena da amici. Mangiare insalata di mare e tortino di spatola. Chiacchierare e scherzare. Bere, moderatamente, del vino bianco. Abbracciare Stefania stesi su un divano. E strafare con un sorso di whisky. Non ho dimenticato che sono cambiato. Ma ho la sensazione di essere tornato ad una vita normale. Convivere con i propri limiti è possibile. Alle volte faccio paragoni. Ma in questi casi non sono pensieri utili. La cena era squisita. Il tortino di pesce era delicato e gustoso. Ho chiesto a Filippo se fosse disposto a prepararlo lui. Mi ha guardato un po' stupito. Si è rilassato quando gli ho detto che lo avrei guidato io. Naturalmente, grazie della cena a Valeria, la mia bionda amica e sua figlia Viola.

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 2



La volta che decisi di andare al cimitero dopo la morte di mio padre. Quello naturale. E scoprire che quel giorno era la data del suo compleanno.
- Le vertigini provate solo per vedere dal vero una stella alpina.
- La ragazza che ci ha voluto provare con me. Saltandomi addosso mentre ero a letto. Iniziai a pensare che la cosa alla fine si poteva provare. Mai rinunciare a provare. Giusto in quel momento arrivò il fidanzato della ragazza.

Le chicaccherate con Paolo durante il servizio civile a Milano. Con Paolo si condivideva tutto. Lui scelse di mettersi un mio giaccone, che gli cedetti volentieri. Lui minuto con il mio giaccone addosso quasi spariva. A me metteva allegria.
Franco Serantini (Cagliari 16 Luglio 1951/ Pisa 7 Maggio 1972).Il compagno anarchico con il quale diverse volte facevamo attachinaggio a Pisa. Preso a botte dalla polizia durante una manifestazione. Arrestato e lasciato morire senza aiuto in una cella.

Le lunghe passeggiate prima dell'alba sul lungo mare, in attesa del sorgere del sole. Erano passeggiate in un altro mondo. Dal mercato ittico fino alla parte Sant'Erasmo. Succedeva di tutto durante queste passeggiate. Furti al volo, in sella ad un vespino, sottraendo ad un furgoncino un vassoio di pesci. Gente che correva per tenersi in forma. Macchine trasformate in talami. Andati via, lasciavano fazzolettini sporchi e il classico preservativo rosso. Chi cercava l'ultima avventura per concludere la serata. Chi faceva scippi. Anche io ne sono stato vittima. Alcuni arditamente pescavano in quel tratto di mare sporco. Altri vi scongelavano il pesce che avrebbero spacciato per fresco.

I Radio Head a Milano. Grazie a Davide che mi aveva proposto di andarci. Pranzo in un ristorante giapponese. Offerto da lui. Visita ad una sconvolgente mostra di Bacon, all'uscita i suoi quadri ballavano nella mia testa. Infine il concerto che sembrò non solo a me qualcosa di magico. L'incontro con Brembi e la notte e il giorno successivi passati insieme.

Dracula” di Bram Stoker uno dei pochissimi libri che ho riletto più volte. Trovo geniale accostare diari, lettere, articoli di giornali per formare una lettura intrigante.

La notte passata a Sesto San Giovanni. Ospite di Umberto Tiboni, distributore di riviste underground e dell'estrema sinistra. Passai la notte su un letto formato da copie arretrate di Re Nudo. Ho sempre pensato che quella scena doveva avere un significato.

venerdì 19 aprile 2013

Edificio 17A - Allegria



Cerco di alleggerire l'attesa e la stanchezza con una battuta o umanizzando ill mio caso. Tranne con un Dottore i miei tentativi vanno a buon fine. Quindi. La calorosa stretta di mano e il sorriso del primario incontrato per le scale. Sono incoraggianti. L'ematologo che dopo avergli detto che più di venti anni fa lavoravo in un laboratorio di analisi cliniche. Leggendo anche le formule leucocitarie. Ha cominciato a chiamarmi amico mio. Fantastica Caterina sempre pronta ad aiutarmi e a lasciarsi abbracciare
Lo scambio di battute sulle donne con l'infermiere Luigi. Io sostenendo di non fidarsi mai quando una donna dice.
Cinque minuti e sono da te”
Lui più misogino ribattere:
Donna uguale danno”
Una infermiera che mi dice:
Mi sembra di conoscerla”
Certo che ci conosciamo. Abbiamo lo stesso vizio”
Mi guarda un po' perplessa, poi capisce:
Adesso non più, ho la sigaretta elettronica”
Cerco di non separare il corpo dalla testa. Di cedere a quel briciolo di umanità. Sorridere più spesso. Fare breccia nell'altrui cuore senza invaderlo. Provarci con tutti. Anche questo per me fa parte integrante della terapia.

Edificio 17A - Non si uccidono così anche i malati?



Disegno di Gianni Allegra



Dovrei fare una vita tranquilla. Riposarmi. Cercare di distrarmi. Invece ogni giorno c'è qualcosa che devo fare in quanto malato. Girare per uffici a sbrigare pratiche burocratiche. Andare in un ambulatori di analisi cliniche per fare degli esami. Ritornare nell'Edificio 17A per richiedere la cartella clinica. Fare un consulto con l'oncologo che mi manda per ulteriore approfondimento dall'ematologo. Chiedere di anticipare la visita di controllo. Ritornare alla ASL per far correggere la richieste dei sacchetti per la colonstomia, hanno sbagliato a fare i conti e il farmacista mi ha chiesto di farli rifare. Arrivare a casa distrutto come se avessi fatto una maratona. Incapace anche di controllare quasi i movimenti del corpo.
Da lunedì si ricomincia. 



giovedì 18 aprile 2013

Edificio 17A - Cose che ricordo del passato 1



-Una chiaccherata fino a tarda notte. Con un ragazzo in preda dell'eroina. Quando arrivai al limite di sopportazione gli proposi guardandolo fisso negli occhi: “Se tu davvero vuoi morire, come dici. Io ti darò una mano. Mi devi solo dire come vuoi morire”. Ebbe paura di me. Non si lamentò più.
-Filippo che al tavolo di un ristorantino, oltre un decennio fa, mi chiese “Ma mi stai corteggiando?”.

-I boccali di birra bevuti in un pub di Londra insieme a Nicola.
-La corsa per scaricare l'adrenalina accumulata dopo aver visto “La notte dei morti viventi” di Romero.
-La passeggiata sotto una pioggia scrosciante a Milano Insieme a Paolo obiettore di coscienza come me. Questa volta il film era “Il pozzo e il pendolo” di Roger Corman e con Vincent Price.
-Il volume “Il gioco delle perle di vetro” di Hermann Hesse . Rubato ad una libreria di Milano. Ma sono stato condannato a non riuscire a leggerlo. Provato diverse volte, ma niente. Non mi prende. Un furto inutile.
-Lo schifo in una stanza di un rifugio alpino. Con vomito ovunque ci si girasse. Effetto di una allegra serata insieme ai vicini dell'altro rifugio accanto. Intorno ad un tavolo ci si passava un orinale colmo di grappa e si doveva bere. Secondo me quello che ci ha dato alla testa sono stati i fumi dell'alcol che respiravamo avvicinando l'orinale alla bocca.
-Una giornata intera passata in una spiaggia vicino Ribera. Nutrendoci di cracker e ricci raccolti al momento. Insieme a Luciano e una psicologa più pazza di me.
- Boris che decide di adottarmi. Trattandomi da vero figlio e comportandosi come un vero padre.
Il mio negozio è tutto merito suo.

- Una domenica a mare, vicino Balestrate, con Filippo è un orda di orsi non stanchi della festa della sera precedente.

Edificio 17A - Promesse



Ciccio continuo a sentirlo per telefono. Lo chiamo quasi tutte le sere. Gli chiedo se ci sono sviluppi nuovi. Lui è felicissimo di sentirmi. Io mi immaggino i suoi occhi sorridenti. Gli magnifico il formaggio che mi ha regalato. E non mento. Lui mi parla dei pascoli di Godrano. Della genuinità del prodotto.
Salvatò, altrimenti non te lo avrei dato”
Mi chiede indirettamente se andrò a trovarlo ancora. Gli dico di sì. Domani farò una visita di controllo e gli ho assicurato che lo andrò a trovare.
E le promesse le mantengo.

Edificio 17A - Gioia e burocrazia

Disegno di Vime





Pino, mio fratello, mi ha portato in giro tutta la giornata. Siamo andati a trovare Ciccio, ancora ricoverato in Chirurgia Oncologica, felicissimo di vedermi. Ci siamo abbracciati. Lui, così magro, mi faceva ancora più tenerezza. Abbiamo parlato tenendoci per mano. I suoi grandi occhi erano sorridenti e alle volte si inumidivano per la commozione. Mi ha fatto trovare una caciotta di caciocavallo fresco prodotta a Godrano. Ho incontrato anche Caterina con la quale ci siamo abbracciati a lungo, come vecchi amici che si rivedono dopo molti anni. Ho incontrato anche la caposala Rosi. Ha gradito molto i miei ringraziamenti.
Poi, Pino mi ha detto “Andiamo dalla zia Nunzia”. Io pensavo a una nostra vecchia zia. Invece era Da zia Nunzia, una trattoria. Per la prima volta ho mangiato da solo con mio fratello. Abbiamo chiacchierato e mangiato una pasta con vongole e cozze molto buona, accompagnata da un vinello bianco e fresco. Guardo Pino con uno sguardo diverso. Uno dei tanti cambiamenti. Lo guardo e invidio la sua forza.
Il giro è continuato alla Asl. Per esenzione ticket e altre pratiche che si fanno di solito nei casi come il mio. Mi sono messo a parlare con una signora che era lì per il padre: rottura del femore. La cosa strana è che mentre prima erano gli altri a rivolgermi la parola, adesso sono io a rompere il ghiaccio. Ho bevuto due bottigliette di acqua da mezzo litro. E' vero che in questo periodo bevo molto più del solito, ma penso abbia aiutato anche la pasta. Sbrigato tutto, ci siamo diretti verso il mio medico di base.
Ritirate diverse ricette e moduli. Infine, Pino mi ha riportato indietro. Arrivato a casa mi sentivo un rottame. Tutta una giornata passata fuori. Mi ha stancato moltissimo. Ma la rifarei tutta.